Intervista a Gianluca Caputi
di Rosa Manauzzi
Nasce a San Paolo del Brasile nel 1961, vive e lavora a Roma. Architetto e designer, è il fondatore di Caputistudio, laboratorio creativo di architettura attivo nel campo dello yacht design, architettura civile, arte applicata e design. La pratica pittorica è stata da sempre una delle sue occupazioni e nel 2010 avvia una ricerca cistica che lo porta, da una parte, al recupero iconografico di soggetti pittorici del passato, dall’altra alla loro alterazione attraverso l’uso di materiali non convenzionali o per mezzo della sovrascrittura dell’immagine.
Da sempre sei amante del mare. Quanta influenza ha avuto l’idea di uno spazio tanto aperto quanto misterioso nei tuoi studi e nelle scelte post-universitarie?
Il mare nel senso di “tabula rasa” è lo scenario ideale per oggetti di design che prescindono dal contesto. In questo senso il progetto di un’ imbarcazione è autoreferenziale e dunque molto diverso da un’ opera di architettura civile. Ma non parlerei di libertà compositiva in senso assoluto. Il disegno di una barca deve rispettare alcuni concetti fondamentali basati sull’idrodinamica, aerodinamica ed ergonomia. Inoltre in una barca gioca un ruolo importante il peso e la performance dinamica. In un certo senso somma le specificità e le complessità della casa più quelle dell’automobile. Più che gli studi accademici il mare ha influenzato il mio lavoro di architetto ed il mio approccio radicale al progetto.
Sei praticamente figlio d’arte, avendo tuo padre avviato un cantiere navale che si è occupato di lavori notevoli anche per casate importanti. Quanto ha contato la sua esperienza nella tua formazione e nel tuo lavoro?
Fondamentale. mi ha introdotto nel mondo dello yachting che ti costringe ad uscire dal guscio nazionale e ti porta a viaggiare molto all’estero e a confrontarti con players internazionali. Gestisci budgets importanti, impari le lingue e hai l’opportunità di entrare in confidenza con luoghi o persone che normalmente vedi solo sui giornali. Ti apre la mente e ti spinge a migliorarti sempre e non accontentarti mai. Impari a conoscere l’eccellenza in fatto di materiali e professionalità. A proposito dei miliardari o regnanti che ho conosciuto e per i quali lavoro, mio padre mi ha insegnato ad avere rispetto per tutti ma anche ad avere coerenza e schiena sempre ben dritta.
Dal 2010 hai dato un nuovo corso alla ricerca pittorica. Cosa ha fatto scattare questa nuova ‘riscrittura’ delle opere?
Resiste da più di cento anni la dichiarazione tranciante che vuole la pittura come un’arte morta. Dopo aver riflettuto sulla infondatezza di un tale pensiero, ho dovuto comunque ammettere dentro di me che dopo le avanguardie del ‘900, era morta sicuramente una certa “idea” della pittura. Allora ho pensato che non ci sarebbe stato nulla di più rivoluzionario che ripartire oggi dalla pittura barocca.
Perché vuoi recuperare opere del passato? Non sarebbe stato più semplice idearne di nuove? Non temi il confronto?
Riguardo al “passato”, all’idea di contrapposizione fra arte contemporanea e arte antica, Gino de Dominicis amava ribaltare il senso comune sostenendo che l’arte antica è quella che produciamo adesso, arrivando noi migliaia d’anni dopo l’inizio della storia dell’uomo. Io sono d’accordo con lui. Il fatto di riferirmi esplicitamente ad un modello mi riporta alle origini dei miei studi da autodidatta che facevo copiando i capolavori del passato nelle chiese e nei musei di Roma tutte le volte che saltavo la scuola. Tuttavia è abbastanza evidente che le mie non sono semplici copie, ma “ponti” con il passato. Alberto Magno, il più grande filosofo e teologo tedesco del Medioevo scrisse che“L’Arte della memoria riguarda soprattutto il futuro, è un ponte da costruire fra una morte passata ed una vita a venire”. In questo senso ogni mia opera è una nuova vita. Ogni opera ospita interventi che ne modificano letteralmente l’impianto compositivo. “Disturbi creativi” che modificano per sempre la copia facendola irrompere nel presente. A volte sono abrasioni a volte schizzi di colore, altre volte la superficie viene spellata con un bisturi fino a scoprire il supporto, e su questa parte “nuda” del quadro intervengo con sovrascritture fatte con stencil e vernice spray. Questa distonia, questo sfregamento di tempi eterogenei, crea un immagine dialettica, che è in definitiva il mio obbiettivo fin dall’inizio dell’opera. Insomma vandalizzo l’opera da museo creando un disturbo emotivo.
Hai partecipato al Premio Comel 2014 con l’opera ‘Alluminazione’. Puoi raccontarci qualcosa della sua genesi e del suo significato?
Alluminazione è un neologismo che ho creato espressamente per questa mostra. E’ una crasi fra le parole Alluminio ed Illuminazione e mi è piaciuta subito. Mi interessava l’incontro-scontro fra una serie di cose: il contrasto freddo, riflettente/caldo, opaco dei materiali (supporto in alluminio riciclato e pittura ad olio); il contrasto contemporaneo/antico fra soggetti e tecniche di pittura. Per quello che riguarda il significato sono dell’opinione che un opera d’arte non vada spiegata ma voglio aggiungere un concetto, e vorrei che fosse molto chiaro: Io dipingo paesaggi di cose perdute, ma non vorrei che la memoria di queste fosse perduta per sempre. La mia è una dichiarazione d’amore per la Grande Perduta Bellezza. Francis Fukujama ha pronosticato nel 1992 “la fine della storia”. Ebbene no, la storia non finirà, ma se non faremo qualcosa per recuperare la conoscenza e la memoria della nostra identità culturale, se non insegneremo questo ai nostri figli, certamente non avremo un futuro.
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Cos’è il Caputistudio? Rappresenta un punto di arrivo o un punto di partenza?
Entrambe le cose. L’inizio della crisi economica europea unita ad una globalizzazione mondiale più spinta ha messo in evidenza tutte le criticità del sistema italiano. Anche Caputistudio come realtà professionale ha voluto adeguarsi e proprio per questo abbiamo messo in cantiere un progetto molto ambizioso che va nel terreno della contaminazione fra le discipline. Solo cambiando il modo di vedere le cose potremo uscirne, e noi lo facciamo rilanciando con una proposta professionale/artistico/ culturale su un territorio nuovo ma molto stimolante. Vogliamo creare un luogo che ambisca a diventare un punto di incontro fra generazioni, culture, esperienze professionali e sensibilità artistiche diverse. Un incubatore di stili, dove artigianalità, arte, tendenze e la pratica professionale si contaminino quotidianamente.
Le tue opere per il mare comprendono imbarcazioni lussuose e altre di pubblica utilità. C’è un tratto comune che ti piace condividere per lavori tanto diversi?
Certamente, nei miei lavori per la Cantieri Navali del Golfo, una buona parte delle piattaforme tecnologiche ( il pacchetto scafo, strutture, impianti, propulsione) progettate per il militare ha poi generato delle applicazioni di successo per l miei progetti di imbarcazioni da diporto dai 10 ai 50 mt di lunghezza.
Nell’era informatica in cui viviamo, com’è cambiata la richiesta dei progetti e la loro realizzazione?
Quello che cambia è l’estrema facilità con cui si interagisce fra gli interlocutori: oggi tramite la rete si condividono quantità tali di informazioni e dati che solo qualche anno fa sarebbe stato impensabile. Il mio progetto nasce sempre dal disegno a mano, da schizzi con cui indago in successione i vari aspetti del progetto. Poi inizia una messa a fuoco per gradi successivi delle aree strategiche del progetto che sviluppiamo al computer con i nostri collaboratori; usiamo programmi CAD che ci consentono di gestire anche lo sviluppo delle superfici in 3d. Realizziamo il progetto degli interni e nel caso di barche anche le linee esterne tridimensionalmente. Ci occupiamo di Yacht Design, Architettura civile e Interior Design. Ultimamente abbiamo realizzato il flagshipstore di Christian Louboutine a Roma a Piazza in Lucina, un progetto dove siamo riusciti ad interpretare i desideri del cliente fino al minimo dettaglio. Siamo arrivati fino alla definizione matematica del file che è poi servito al taglio laser delle inferriate metalliche ricavate da una lastra piena, o delle pareti con testurizzazione in 3D di blocchetti piramidali realizzati in travertino. Questa capacità di gestire il dettaglio proviene senza dubbio dall’esperienza di cantiere e dal fatto di avere a che fare con clienti per i quali non esiste la parola: impossibile.
Quanta importanza hanno lo spazio e la luce nelle tue opere?
Molto. Quello che è più difficile imparare a fare è togliere da un opera il superfluo, raggiungere l’equilibrio perfetto fra pieni e vuoti. La luce la uso per esaltare le sezioni sulle doppie altezze, le trame dei materiali, per esaltare le ombre. In pittura troppa luce è dannosa, e la migliore scuola di pensiero illuminotecnico vuole per le opere barocche una luce sagomata sull’opera, mentre l’arte cosiddetta contemporanea viene esaltata da luce diffusa, tipo wallwasher. Nel mio caso mi piace che le mie opere affiorino dall’oscurità del passato per irrompere nel presente con squarci e bagliori di luce drammatica.
Qual è la missione della tua ricerca architettonica e dove credi di averla meglio applicata?
Costruire attraverso l’architettura un “motore a reazione poetica”. Un oggetto che prenda per mano l’utilizzatore e lo conduca in un luogo remoto dello spirito o della memoria. Che sia un architettura, il design di una barca o un quadro.
L’opera che ti piacerebbe realizzare?
La prossima, naturalmente.