VINCITORE DEL PREMIO DEL PUBBLICO 2017

Intervista a Emilio Alberti

di Rosa Manauzzi

Nato nel 1952 in provincia di Como. La sua ricerca attraversa la pittura, la scultura e l’installazione. Esordisce nel 1976 ad Art Basel. Al suo attivo un’ampia attività espositiva con mostre personali e significative presenze in rassegne internazionali di rilievo. È fondamentale nel 1991 l’incontro con il critico d’arte Pierre Restany. Il suo percorso artistico è caratterizzato dalla contaminazione di linguaggi diversi e differenti espressioni artistiche. Collabora spesso con poeti, musicisti e artisti di altre discipline. La continua ricerca e sperimentazione lo portano ad elaborare una tecnica personale fatta di stucchi e lamina di alluminio fin dal 2005.

Perché la scelta dell’arte? Il Liceo Artistico di Brera e poi l’Accademia d’arte. Quali altre esperienze formative si sono rivelate fondamentali?

A volte ho l’impressione che per me l’arte sia stata il frutto di una non-scelta. Da bambino passavo intere giornate nella bottega di mio padre. Era artigiano falegname. Costruivo “cose” con scarti di lavorazione, pezzi di legno dalle forme strane ed evocative che assemblate diventavano animali fantastici o personaggi misteriosi. Sono convinto che la mia prima esperienza formativa, l’imprinting fondamentale sia avvenuto proprio nella bottega di mio padre. Assistere giorno dopo giorno alla trasformazione del legno grezzo in un mobile perfettamente levigato e lucido è motivo di grande fascinazione in modo particolare per un bambino, meraviglia e stupore per il potere delle mani… quelle mani di mio padre callose e dure come pezzi di legno. In quella bottega ho realizzato le mie prime inconsapevoli “sculture” e da allora non ho mai smesso di giocare con i materiali. Ancora oggi per la mia anziana madre sono il figlio che non ha mai deciso cosa fare da grande.

Mario Radice e Aldo Galli, del gruppo degli artisti denominati comaschi, sono due grandi Maestri dell’astrattismo italiano, che aprirono la strada italiana nel mezzo dell’avanguardia europea. Due personalità che ha avuto modo di frequentare e con cui ha lavorato per alcune collettive. Può raccontarci qualcosa di loro e dirci in che modo hanno influenzato la sua arte?

Sono stato accolto poco più che ventenne nell’Associazione Belle Arti di Como presieduta da Mario Radice. Radice e Galli erano già due anziani mostri sacri dell’astrattismo italiano ma si dimostrarono molto aperti e disponibili. Fui molto colpito dalla loro modestia e affabilità. Ho imparato molto da loro. Anzitutto il rigore nella ricerca, l’impegno nell’arte come esercizio quotidiano e la pratica dell’arte, anche oltre il suo ambito specifico. Ricordo che spesso citavano l’eredità culturale dei medievali Magistri Cumacini, che fondevano arte e perizia artigianale. Entrambi si erano dedicati anche all’arte applicata, in particolare Aldo Galli aveva operato nel campo della decorazione murale e degli stucchi. A Como, dove a quell’epoca era fiorente l’industria tessile, agli artisti venivano richieste idee e collaborazioni nell’ambito dei disegni per tessuti. È un’esperienza che anch’io per un certo periodo ho avuto modo di praticare, successivamente mi sono interessato anche alle tecniche ceramiche e all’oggetto d’arte.

Nel 1976 l’esordio internazionale ad Art 7 di Basilea (un evento che frequenterà anche in successive edizioni). Cosa cambia da questo momento in poi?

Partecipare a grandi eventi internazionali porta ad una maggiore consapevolezza. Ci si sente parte di un dibattito a livello globale. Ti rendi conto che c’è anche la tua voce, seppur flebile. Ci sei anche tu. Diventi consapevole che il tuo lavoro può andare oltre i ristretti ambiti della tua città e della cerchia di persone che ti conoscono. È molto utile lo scambio e il confronto con altri artisti. Ho fatto incontri interessanti che a volte sono diventate amicizie o corrispondenze che si sono protratte nel tempo. Si torna sicuramente più arricchiti e con molti stimoli a cercare nuove strade.

Murale, ceramica. Dongo (2017)

Tra la fine degli anni ’70 e metà degli anni ’80, il marmo è stato il materiale d’elezione, grazie a frequenti soggiorni a Pietrasanta (Lucca). È il materiale che chiama l’artista o l’artista che cerca il materiale con cui narrare? Con quali altri materiali ama creare?

Arte è linguaggio espresso dalle mani. La materia e il colore ne costituiscono la sintassi. L’artista sceglie il materiale più adatto al suo racconto come il poeta e lo scrittore scelgono le parole (è un argomento di discussione frequente con amici poeti. L’artista visivo deve inventarsi la propria lingua, parole nuove che siano solo sue). Il marmo era funzionale alla ricerca che allora portavo avanti intorno al concetto di peso e leggerezza. A volte è il materiale stesso a suggerire un racconto, come se già racchiudesse in sé una memoria. La curiosità e la voglia di sperimentare mi hanno portato nel corso degli anni a confrontarmi con i più svariati materiali: carta, legno, terracotta, bronzo, marmo, vetroresina, PVC, stucco, alluminio. I materiali e la tecnica non sono solo funzionali, forniscono strumenti e stimoli all’invenzione. In questo momento per realizzare un murale di grandi dimensioni ho scelto la ceramica, sono tornato a un materiale antico che ha sempre notevoli potenzialità espressive.

Le numerose esposizioni in Germania (1984-1985) e la mostra Italian Contemporary Art a Kyoto (1989) hanno rappresentato probabilmente la conferma di una indubbia maturità artistica pronta ad essere riconosciuta oltre i confini, esperienza poi ripetuta negli anni successivi anche a New York (1991, 1994), in Turchia (2005). Cosa ha preso dalle altre culture incontrate e cosa ha lasciato dell’Italia in giro per il mondo?

È molto importante per un artista (soprattutto da giovane) viaggiare, guardare e assorbire. Le successive esperienze all’estero mi hanno confermato le sensazioni avute nei primi viaggi a Basilea. L’arte è linguaggio universale specchio dei tempi e di una cultura globalizzata, ma ho conosciuto anche molti artisti fieri della loro cultura d’origine e questo traspariva dalle loro opere, anche se non si consideravano espressamente impegnati a rappresentarne i valori. Questo penso sia accaduto anche al mio lavoro. Ovunque andiamo ci portiamo il nostro bagaglio culturale, una memoria ancestrale che viene da molto lontano. Per un artista poi il genius loci è una realtà inconsapevole e imprescindibile che gli appartiene e permea il suo operato. L’incontro con culture lontane lascia inevitabilmente delle suggestioni e rende consapevoli di altre possibili visioni del mondo e differenti approcci alla realtà. E questo non può che arricchire i contenuti dell’opera, anche se in ultima analisi ogni opera esprime anzitutto un mondo interiore, rappresenta sempre di fondo l’autore… c’è sempre la sua biografia oltre le sollecitazioni della realtà che lo circonda e il proprio “sentire” il mondo.

Vincitore del Premio del Pubblico COMEL 2017. Di fatto un’acclamazione collettiva, incluso il plauso di tanti giovani studenti d’arte in visita alla mostra “Sinuosità dell’alluminio”, che ha visto la sua opera, Tempesta (Onda), protagonista insieme ad altre dodici opere selezionate da tutta Europa. Come ha conosciuto il Premio COMEL e cosa ha rappresentato per lei quest’esperienza?

Ho saputo del Premio Comel da una newsletter di informazione su eventi d’arte. Ho partecipato a pochissimi concorsi d’arte perché non mi ha mai interessato l’aspetto competitivo. Mi ha incuriosito oltre al tema dell’alluminio (che utilizzo da diversi anni) il fatto che a organizzarlo fosse un’azienda, che il premio avesse cioè origine al di fuori dal solito circuito dell’arte. Mi è apparsa un’operazione meritoria di mecenatismo che esprime un sincero interesse per l’arte. È stato stimolante “mettermi in gioco” dopo tanti anni che non partecipavo a premi… e devo dire che l’esito mi ha molto lusingato.

Racconto Vertigine – Terracotta policroma e ottone (1998)

Tempesta (Onda) è sicuramente un’opera molto comunicativa sul piano estetico, in grado di esprimere energia e allo stesso tempo denotare equilibrio, quasi una tempesta domata dal magistrale uso cromatico e gioco dei materiali. Che tipo di tempesta aveva in mente durante la sua esecuzione?

Da diversi visitatori è stato fatto l’accostamento all’onda di Hokusai (era forse inevitabile data la notorietà in questi ultimi anni dell’immagine del maestro giapponese). Ma credo che l’unica cosa che abbiano in comune le due opere sia solo il fatto che entrambe rappresentano un’onda! Più che la raffigurazione di un’onda la mia è l’idea di un’onda. Nella mia tempesta non c’è la barca che sta lottando contro i flutti… forse la tragedia si è già consumata o forse i rematori sono riusciti a salvarsi. Volevo rendere il dinamismo e la drammaticità. Cristallizzare un momento. Cogliere la sospensione di un attimo dove tutto può accadere o dove tutto è appena accaduto. Il riflesso dell’alluminio contribuisce a rendere il movimento e pone anche lo spettatore dentro la composizione, lo rende parte dell’azione.

In un’intervista, l’artista Pietro Consagra ha affermato che il calore del pubblico è stata per lui una spinta creatrice vitale, senza la quale non avrebbe potuto proseguire, a differenza di alcuni artisti che amano creare senza preoccuparsi dell’altrui giudizio. Cito Consagra non a caso, dato che il critico d’arte Pierre Restany, le ha attribuito, come è già stato detto del Maestro siciliano, la ricerca “di spazio libero, dei buchi profondi, delle fessure, di tutte le aperture possibili.” Una similitudine, in parte ma in modo deciso, che si riscontra nella sua arte. In generale, quanto è importante per lei il riconoscimento del pubblico e in che misura invece è rilevante il giudizio della critica? Ovvero, cosa incoraggia di più a creare? Qual è il riconoscimento più importante finora ottenuto?

L’incontro con il pubblico è fondamentale. L’opera d’arte vive nello sguardo del pubblico. “È lo spettatore che fa il quadro” diceva Duchamp, sono coloro che guardano a mettere in moto il complesso insieme di segni, tracce e segnali che compongono l’opera. Sono loro che la fanno vivere. Come evidenziò anche Octavio Paz, l’opera d’arte esiste in quanto è guardata: interpretata. Lo stesso concetto viene espresso da un’antica storia zen, dove un poeta si uccide quando muore un suo grande ascoltatore, che più di ogni altro sapeva gioire o soffrire intensamente alle sue poesie, vivendole e immedesimandosi. È lo scambio che avviene tra l’opera e chi la guarda a fare la differenza. Lo spettatore deve trovarci qualcosa di sé. Per tutti questi motivi mi fa particolarmente piacere il Premio COMEL del Pubblico!
Un grande stimolo a creare è la scadenza di una mostra. Il tempo finito, il senso di limite è una grossa spinta a concentrarsi sulle tematiche da esprimere, a raggiungere una sintesi eliminando sovrastrutture, ridondanze e compiacimenti tecnici; oltre ad essere un pungolo a superare quella fase piacevole quando si pensa all’opera da realizzare, la si costruisce mentalmente passo dopo passo e la si vede già finita senza la fatica e le difficoltà della realizzazione.
La funzione del critico è fondamentale per l’avvicinamento e la comprensione del pubblico. Troppe volte però il linguaggio è criptico e astruso. Sono molto costruttive per l’artista le frequentazioni e gli scambi con il critico. Il critico deve essere un compagno di strada. Il mio primo incontro fortunato è stato Pierre Restany. Hanno avuto grande importanza per me i nostri colloqui alla galleria Schubert di Milano alla fine degli anni Ottanta dove io esponevo e lui era una presenza abituale. Altrettanta importanza ha avuto la frequentazione in gioventù con artisti più maturi: oltre agli astrattisti comaschi, ho collaborato per un certo periodo con lo scultore Francesco Somaini, poi Ico Parisi, architetto designer che mi ha illuminato con la sua teoria dell’Integrazione delle arti, esortandomi ad approfondire l’arte come esperienza totalizzante.

La collaborazione interdisciplinare con artisti di altre forme d’arte è una presenza sempre più costante nella sua ricerca. C’è anche la comunione artistica con lo scrittore, storico e critico d’arte Gérard-Georges Lemaire, in particolare per il ciclo “Finestre” (tra l’altro Lemaire è anche noto traduttore di scrittori inglesi e soprattutto uno dei più grandi conoscitori di Franz Kafka). Ma per lei è stato anche importante cimentarsi con diverse espressioni artistiche, come nel caso del volumetto-catalogo di racconti ispirati alle opere della mostra “Incoerente eternità”, a cura di Pierre Restany. In questa occasione viene esplicitata la ricerca sulle tematiche sempre più preponderanti di tempo e luce. Ovvero?

Momenti di incontro, condivisione e scambio sono sempre stati molto importanti. Il confronto con gli altri non può che produrre crescita e apertura. È attraverso la relazione e la condivisione con l’altro che diamo un senso alla nostra esistenza.
L’esperienza totalizzante di cui parlavo mi ha portato a incursioni nel campo della scrittura, della performance, della musica. Particolarmente significativa è stata l’esperienza con Lemaire che ha saputo tradurre in forma letteraria il nostro incontro, cogliendo il senso delle “Finestre” a cui stavo lavorando in quel periodo. Questa nostra esperienza ha avuto come esito una mostra alla galleria Schubert. Qualche anno più tardi, stimolato e incoraggiato da Pierre Restany, ho realizzato il progetto “Incoerente eternità” dove il ciclo di opere intorno al tema del tempo si confrontava con dei brevi racconti andavo scrivendo durante la loro creazione.
Il tempo è la tematica che sottende tutto il mio lavoro, sia quando si esprime attraverso un’iconografia che rimanda alla misurazione del tempo sia che lo richiami in modo più allusivo attraverso la luce o rappresentando i moti e i turbinii dell’acqua.

Solstizio – Bozzetto – Ceramica Raku e vetro (1995)

Il tempo, in tutta la sua fascinazione rappresentativa, torna in una personale suggestiva dal titolo “Le ore del Sole”, mostra tenutasi presso il Palazzo Millepini di Asiago (nel 2012), a cura dell’Istituto Nazionale di Astrofisica e l’Osservatorio Astronomico di Padova. Al tempo ha dedicato diverse sculture, con meridiane labirintiche (Racconto: vertigine, 1998) o antichi dolmen da cui nascono le misteriose luci del solstizio (Solstizio, 1995) o soglie contemporanee che uniscono la memoria a dimensioni altre che devono ancora sopraggiungere (Lampo giallo, 1992; Tempio del Sole, 1994). Il tempo cos’è? Un’esplorazione luminosa?

Il tempo è un flusso che ci contiene e permea la nostra esistenza. Il nostro è un tempo finito. Un breve tratto che stiamo percorrendo assieme. Qualcosa che tutti condividiamo. Un legame ineffabile che dovrebbe unirci in una maggiore consapevolezza.

Il tempo, la luce, la natura e la ricerca di un possibile equilibrio tra opera dell’uomo e contesto naturale sono tematiche ricorrenti alla base di molte opere e mostre più recenti. Ne sono una viva e potente manifestazione le installazioni L’arco del vento (1994, Porto Sant’Agostino, Como), Dell’acqua e del vento (1994, Porto Sant’Agostino, Como), Perpetuum Mobile (piazza Cavour, Como, immortalata nell’esondazione del lago del 1993), Dafne (villa Parravicini, Como 1994), con i lunghi cavi colorati in nylon che poi diventano viaggio altrove, indicando e rappresentando la luce, il prisma, la possibilità… per citarne solo alcune.

Il rapporto tra opera e spazio (grande lezione di Fontana) mi ha portato dapprima ad andare oltre il quadro e invadere la parete, poi lo spazio stesso della galleria che non era più semplicemente un contenitore, le opere non dovevano solo mostrarsi ma esplorare i confini dell’ambiente divenuto spazio altro, dove lo stesso termine di confine non alludesse come dice Heidegger “a ciò in cui qualcosa termina e finisce, bensì a ciò a partire da cui qualcosa comincia”. Il passo successivo è stato quindi uscire dalla galleria per considerare uno spazio più ampio, che coinvolgesse anche la natura. Sono così nate le grandi installazioni nello spazio urbano, sulle acque del lago, nel paesaggio.

Nel 2016 allestisce la personale “Acqua”, presso il Palazzo ducale di Revere (Mantova). Del resto per anni l’elemento liquido ha rapito la sua attenzione (e metaforicamente viviamo di fatto in una società liquida). Una mostra a più voci, con interventi poetici e musicali, arte visiva e ambiente. Dal marmo all’acqua… Si dice che l’acqua vinca su tutto. Non ci rimane che venerarla, quindi, o forse semplicemente tornare a considerare le forze naturali e a vedere i nostri limiti.

È di notevole suggestione il concetto del filosofo Talete: “L’acqua principio di tutte le cose”. Elemento primordiale, origine della vita e simbolo della vita stessa. Il tentativo di dare forma a questa idea è la motivazione originaria che mi ha spinto in questa ricerca con amici poeti e musicisti. Riuscire a sintetizzare in una immagine questa sensazione di inizio. Voler risalire ai primordiali gorghi che già contenevano una promessa di vita, una vaga parvenza di futuri organismi complessi. L’acqua è la forza primigenia dalla quale tutto discende, prende forma e si evolve. Forza generatrice, potente, incontenibile, libera. Simbolo dell’energia che si rinnova. Ho sempre trovato fascinazione nelle antiche storie iniziatiche di navigazioni o naufragi: Ulisse, Giasone, Diomede e il loro rapporto emblematico e metaforico con l’elemento liquido. Sono innumerevoli anche le simbologie legate al tema dell’acqua. L’acqua come nascita. Dove ci si immerge per il battesimo e dove, nella cultura classica, avviene l’ultimo viaggio lungo i fiumi degli inferi. Mentre nelle acque del Lete, fiume dell’oblio, le anime si tuffano per dimenticare le vite passate e potersi reincarnare. Rappresentazione visiva dell’inconscio l’acqua racchiude ogni immagine profonda, seduttiva, ipnotica. Moto perpetuo, come il fluire del pensiero… o come il fluire del tempo.

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