Intervista a Lele De Bonis
di Rosa Manauzzi
Nato nel 1980, vive e lavora a Torino come scenografo esecutore per diverse aziende nel settore teatrale, cinematografico, parchi di divertimento e scenografie da esterni. Parallelamente ha sviluppato un personale percorso artistico incentrato sul concetto di recupero e assemblaggio, attraverso il quale rappresenta ciò che più lo colpisce della vita reale. L’essere umano è il centro dei suoi lavori e lo rappresenta quasi sempre in chiave cinica e grottesca, senza però mai condannarlo. Legno e alluminio sono i materiali che utilizza maggiormente. La loro contrapposizione costruttiva gli permette, al di là del messaggio, di giocare e sperimentare infinite relazioni alchemiche tra materia calda e fredda.
Che percorso di studi ha seguito e quale in particolare si è rivelato decisivo per la conferma del suo stile libero?
Il mio percorso di studi ha sempre seguito strade diverse e in certi casi opposte a quello che oggi è diventato il mio lavoro. Sebbene abbia iniziato fin da piccolo ad amare l’arte e a provare a farla, ho studiato al liceo scientifico e mi sono poi laureato in Cinema e televisione presso il DAMS di Torino. Al termine dell’università mi sono poi iscritto ad un corso annuale di scenotecnica che mi ha aperto al mondo della scenografia teatrale e non. Questo ultimo percorso di studi ha rappresentato sicuramente una svolta per me, in quanto mi ha permesso di imparare velocemente tecniche che da autodidatta avrei faticato molto ad apprendere. Inoltre, lavorando in diverse scenografie ho avuto modo di imparare a realizzare lavori di falegnameria, di saldatura e di pittura che si stanno poco alla volta rivelando estremamente preziose per quanto riguarda l’evoluzione del mio percorso artistico personale.
La sua prima fase artistica è stata ispirata “dall’odore della vernice, il profumo del legno lavorato e il rumore del martello che batte o il suono di un avvitatore”. Ha qualche particolare ricordo dei primi incontri con l’arte?
Ho avuto la gran fortuna di crescere in una famiglia che sin da piccolo mi ha nutrito a pane ed arte. Ho da sempre frequentato musei, gallerie e studi d’artista e sono proprio questi ultimi ad aver fatto nascere le mie passioni. Il ricordo delle emozioni che provavo ad osservare i lavori artistici e a sentire i profumi e gli odori dei colori e dei materiali che incontravo in questi studi, è ancora vivido e forte! Probabilmente, la frequentazione dello studio d’arte di un lontano e anziano cugino pittore (Guido De Bonis) mi ha segnato più di ogni altra cosa.
Metallo e legno sono i materiali prevalenti delle sue opere. Luce, spazio, linea sono vere e proprie dimensioni dell’anima in cui fa risuonare e materiali prima di far assumere loro una forma (o quasi). Quale alchimia avviene prima che l’opera venga alla luce?
Caratteristica principale di quasi tutte le mie opere è la totale assenza di progettualità. Lavoro continuamente per associazione di idee e forme, e la tecnica dell’assemblaggio mi aiuta tantissimo a seguire i percorsi evolutivi delle immagini che popolano i miei pensieri. Capita spessissimo che dall’osservazione della forma, per esempio di un pezzo di legno sovrapposto per puro caso ad un altro materiale affine o non, decida di intraprendere un percorso costruttivo a cui poi è difficile dare una fine. Non so mai a cosa arrivo quando inizio a lavorare. Un po’ come quando si gioca a trovare forme conosciute guardando le nuvole. A volte, ho quasi la sensazione che siano i materiali stessi a decidere il loro destino, ed io divento strumento di un volere a me esterno.
Catalogo finale, 2013
L’opera Sigmund (assemblaggio, legno e alluminio) ha ricevuto una menzione speciale della Giura del Premio COMEL, VI edizione, con la seguente motivazione: “L’idea del frammento come parte di un tutto organico e geometrizzato, caratterizza l’opera di Lele De Bonis, in cui il frammento di un suggestivo cubo in metallo, ad esso posto di fianco, viene esibito come alterazione e perdita di un preciso equilibrio formale e psichico, ma anche come principio di una nuova libertà spirituale ed espressiva”. Può raccontarci com’è nata quest’opera e quale rapporto ha con l’alluminio?
L’opera Sigmund fa parte di una serie di lavori in cui ho provato a mascherare la tecnica dell’assemblaggio attraverso la simulazione dell’atto scultoreo vero e proprio. Ovviamente si tratta di un gioco puramente stilistico, in quanto l’utilizzo di piccole placche di alluminio rende evidente allo spettatore la vera natura del lavoro. Sigmund non è più quindi un cubo di metallo, ma cubo di pietra/marmo pronto per essere scolpito. Il cubo è un omaggio a Sigmund Freud, padre della psicoanalisi. Ho immaginato il cubo come trasposizione della psiche umana che, per quanto cerchi di essere dura ed impermeabile come la roccia, ha sempre un punto di rottura pronto a farla esplodere. La spaccatura dell’opera e il suo frammento caduto per terra sono quindi specchio della fragilità umana.
L’esplorazione della psiche umana ha un ruolo determinante nella costruzione delle sue opere e proprio di costruzione si deve parlare per la perizia e la cura del dettaglio nel mettere insieme parti che nascono pazientemente e che infine risultano più importanti dell’opera conclusa. L’incompiutezza è un limite o la ragione della ricchezza? Penso, ad esempio, ad opere come Metamofosi 1-2-3 (2012) dove da parallelepipedi metallici sembra poter nascere una creatura antropomorfa e invece anche nella fase finale emerge formalmente solo un abbozzo della parte superiore.
Metamorfosi fa parte di quella serie di opere di simulazione scultorea di cui ho precedentemente parlato. In questo caso ho cercato di rappresentare il lavoro dello scultore che lavora il marmo in maniera fumettistica. Tre momenti del lavoro scultoreo che rivelano solo in parte una forma umana. Il senso di incompiutezza che ho voluto dare all’opera fa si che l’opera diventi espressione esclusiva di un concetto astratto, in questo caso il lavoro dello scultore che toglie materia per creare qualcosa di nuovo. Personalmente trovo che l’incompiutezza possa generare emozioni opposte. Il confine tra l’orrido ed il sublime è molto sottile e non ha oggettività se non nel nostro personale modo di percepire e vivere la vita. Se per esempio osserviamo la Nike di Samotracia, credo che il Sublime risieda soprattutto nell’assenza dei frammenti dell’opera andati perduti. L’incompiuto porta inevitabilmente la nostra mente a viaggiare, immaginando all’infinito quel senso di certezza e sicurezza che spesso cerchiamo nella vita di tutti i giorni.
Nell’opera Inside a Woman Brain (2011, smalto su legno) immagina la mente della donna come un ingranaggio perfetto, simile a quello di un orologio. Domina l’equilibrio, la circolarità e molto colore, molta vita. Un anno dopo l’opera The Lady, chiusa nella cornice lignea, e sfondo di metallo, ricorda una donna con il burka, non più libera del proprio ingranaggio. Cosa ha ispirato queste due diverse raffigurazioni?
Le due opere in questione sono molto diverse tra loro, non solo dal punto stilistico (la prima è un’opera di grafica mentre la seconda è pura arte povera) ma anche di concetto. Inside a woman brain è un insieme infinito di ingranaggi colorati ed è un omaggio alla complessità e alla vivacità dei pensieri delle donne (se avessi voluto rappresentare il cervello di un uomo probabilmente avrei disegnato due ingranaggi in mezzo al nulla). Un noto comico americano, Mark Gungor, ha affermato che noi uomini siamo superiori alle donne in un’unica cosa: la capacità di riuscire a pensare a niente.
The Lady è invece la rappresentazione di una donna vestita con un burka. In questo caso l’assenza di un corpo visibile femminile rappresenta il tentativo di noi uomini di sottomettere la donna. La rappresentazione del burka è un fatto estremo, ma il problema delle pari opportunità è ben lontano dall’essere risolto anche in paesi occidentali come l’Italia.
da sx: Trashman, 2013 e The Lady, 2013
Il legno, l’albero, i pesci appesi ad un filo, perfettamente in equilibrio, anche se fuori dall’acqua (Under the Sun, The Tree). La natura sembra immune da quel punto di rottura che lei assimila a tutte le personalità umane. Dovremmo osservarla di più e reimparare la sua armonia?
Ovviamente si! Con il passare degli anni la velocità del vivere umano sta aumentando esponenzialmente soprattutto grazie allo sviluppo tecnologico e alla digitalizzazione delle nostre vite. Andiamo talmente veloci che abbiamo perso quasi totalmente la capacità di entrare in empatia non solo con i nostri simili, ma soprattutto con il mondo naturale. Purtroppo, gran parte della popolazione mondiale non si rende ancora conto di quanto piccolo e fragile sia il pianeta su cui viviamo. La Natura, anche se a volte può sembrare cattiva, vive perennemente in molteplici stati di equilibrio che l’uomo mina continuamente. Siamo talmente incentrati su noi stessi, ora anche con molteplici profili digitali, che abbiamo perso la capacità di provare meraviglia davanti alla semplicità e nello stesso tempo perfezione dei processi di vita naturale.
Non disdegna personaggi Pop (Pop Man, Pop Girl) e una marcata linea ironica con cui caratterizza la serie dei personaggi lignei. E capita che il titolo di un’opera sia fumettistica e allegramente irriverente, come nel caso de Gli Sporcelli (2007). Solo giochi artistici o la dimensione liberatoria che dovremmo cercare di far emergere per salvarci dall’alienazione?
Personalmente trovo che l’arte, per chi la fa, sia una valida sostituta ad una seduta psicologica. La mia ricerca, se così si vuole definire, non si concentra su processi intellettuali, ma è diretta, grezza e credo che debba e possa parlare a tutti. I miei lavori, il più delle volte, sono esorcizzazioni di avvenimenti di vita reale, di persone incontrate, di pensieri che magari mi fanno stare male. Tutte le figure umane che rappresento sono metafore e distorsioni di persone esistenti che hanno ruotato o ruotano attorno alla mia vita. L’uso dell’ironia (e del cinismo) mi permette di trasformare in piacevole ciò che a volte non lo è. Tutto diventa un gioco e, come un bambino che gioca ricreando inconsciamente situazioni di vita reale, così mi comporto io. L’arte è una cosa troppo seria per essere presa sul serio. Se poi uno mi chiede se i miei lavori possono essere considerati arte… a questo, proprio non saprei rispondere.