Intervista a Silvia Sbardella
di Rosa Manauzzi
Docente di discipline Plastiche e Scultoree. Artista di arti visive, fotografa, video- performer. Ha conseguito il diploma dell’Istituto d’Arte e dell’Accademia di Belle Arti di Frosinone, nel corso di Scultura. Ha lavorato come burattinaia, fotografa, illustratrice, decoratrice di interni, grafica e regista, maturando esperienze collettive e fondendo linguaggi espressivi diversi. Nella sua ricerca artistica utilizza strumenti analogici e digitali, con tecniche tradizionali e sperimentali, realizzando installazioni di arte con performance artistiche estemporanee urbane e nella natura.
Quando e come nasce Silvia Sbardella artista?
Stando ai racconti di mia madre, per alcuni miei atteggiamenti particolari, deduco molto presto. Ricordo ancora adesso il mio primo disegno a sei anni in prima elementare: la maestra, una suora francescana, mi mise zero spaccato. Zero spaccato! Capii subito che la pensavo diversamente, dai miei coetanei e dalla maestra religiosa, che mi punì per il fatto di aver disegnato con la manina sinistra, cioè con la mano del diavolo, secondo lei. Infatti, sono diventata ambidestra. Mia madre racconta sempre un paio di episodi di quando ero una bambina solitaria: mi portavo sempre una sediolina dietro e all’occasione mi fermavo per fare operazioni ripetitive; ad esempio, piegare e spiegare, per molto tempo, un grande fazzoletto, in tutti i modi possibili. Molto presto ho capito che fare qualunque azione da sola, comportava una ricerca personale non sempre condivisibile come gioco con le mie coetanee, a cui piacevano le bambole e il color rosa con cui si identificavano. Io invece, non ho mai amato nessuna delle due cose!
Quali sono i Maestri d’arte che le hanno instillato l’amore per l’arte in modo definitivo ed esaustivo?
Rispondere non è facile. Sono tanti gli artisti che ho conosciuto nel corso del tempo sia virtualmente, sui testi di storia dell’arte, nei musei, nelle mostre… che personalmente. Mi hanno influenzato le avanguardie del ‘900, i grandi precursori come Marcel Duchamp e Pablo Picasso, il neodadaismo e scultori come Brancusi, Moore, Calder, Cesar, Arman, Fontana, Giacometti, Pomodoro, Harp, Picasso… Scultrici come Rebecca Horn, Louise Nevelson, Niki de Saint Phalle, Barbara Hepworth. E la pop art, l’arte povera italiana, la body art, la land art. Mi hanno fatto innamorare l’apertura provocatoria dell’uso di materiali della realtà quotidiana, il rapporto fra arte e vita, le performances, le installazioni, la videoarte, la multimedialità. Anche i suoni che produce la materia mentre si lavora, quando la tocchi a mani nude. La musica pure ha un ruolo importante per me, mi accompagna sempre e produce nella mia mente trasmutazioni che traduco in forme chiare e intellegibili. Mary Lucier, Bill Viola, Brian Eno, Fabrizio Plessi, mi hanno definitivamente conquistata.
Legame a filo doppio nei labirinti della memoria
La docenza in Discipline Plastiche e scultoree la mette a contatto con studenti completamente immersi in un tempo frettoloso e apparentemente connesso. L’arte però richiede un ritmo e un tempo diversi, una quiete che non sembra appartenere alla quotidianità contemporanea. Cosa può ancora attrarre l’attenzione degli studenti e affascinarli?
La comunicazione è anche una ricerca estetica, quindi riuscire a trovare il modo di trasmettere la passione per l’arte è parlare della sua pratica: l’arte come linguaggio, con le sue regole, che hanno necessità di essere praticate nel tempo in maniera costante per essere pienamente comprese. Ogni incontro una nuova regola da applicare, per avere ogni volta un riscontro immediato.
Incontrare Silvia Sbardella significa incontrare un carico di spontaneità e creatività assolutamente visibili. Fotografia, scultura, illustrazione, decorazione, grafica, sono tutte discipline con cui si è misurata e che hanno arricchito probabilmente il modo di porsi come artista. C’è anche il lavoro di burattinaia, tra gli altri. Cosa ha lasciato di utile nella sua carriera artistica?
Nascondersi sotto altre vesti, con un prolungamento delle braccia, e dare voci differenti a personaggi diversi, mi hanno aiutata a superare la mia timidezza di allora. Ho acquisito sicurezza, ho imparato man mano, ad essere spigliata anche fuori dal contesto teatrale; ho abbandonato baracca e burattini, diventando io stessa personaggio, indossando una maschera. Oggi non ho più bisogno di nascondermi né di recitare: le esperienze, la ricerca e lo studio nell’arte e nella vita m’insegnano ad insegnare.
Nel luglio 2016, una maestosa installazione urbana (lunga 200 metri), “Legame a filo doppio nei labirinti della memoria”, si è sviluppata per via del Carbonaro, a Frosinone. Di quali labirinti si è trattato e come è stata costruita l’installazione?
La performance multisensoriale e installazione “Legame a filo doppio nei labirinti della memoria”, l’ho concepita per recuperare la mia relazione con il territorio dopo una lunga assenza e una serie di esperienze di vita, artistiche e professionali.
Richiamata dalla città natale è stato come essere una pecorella smarrita e, inaspettatamente, ritornare. Non è stato facile. Il filo della memoria, lungo il suo labirinto, nel tempo scorre, a volte si aggroviglia e si ferma lungo i vicoli e le strade della mia città. C’era la necessità di riallacciare i fili, manifestandolo visivamente e simbolicamente, con materiche ri-flessioni, con matasse di fili colorati, come le parole di un discorso lasciato in sospeso. Il labirinto per me è simbolo della sfida quotidiana; il difficile rapporto con la società in cui viviamo, e spesso gira che ti rigira ci ritroviamo al punto di partenza: non è facile uscire dal labirinto della propria vita.
Si è trattato di un’installazione diffusa, di strutture che hanno interessato via del Carbonaro e largo S. Silverio, dal giorno 17 aprile. La conclusione era prevista per il 1° maggio. Invece, avrebbero voluto tenerla stabilmente, ma dopo diversi mesi ho voluto “chiudere il discorso”.
Dopo una verifica strutturale da parte di un ingegnere, le diverse strutture metalliche filiformi e colorate, preparate precedentemente usando kilometri di fil di ferro come metafora del discorso, e migliaia di cannucce colorate come fossero parole, sono state disposte in modo fluttuante lungo via del Carbonaro sostenute dai lampioni e dai balconi.
Maschera dell’attesa
Ha condiviso l’evento “Passeggiata Effimera tre” a Fabrika Dese (PD), con gli artisti della 52° Biennale d’arte di Venezia. Cosa c’è di effimero nell’arte contemporanea?
Sembra che gli artisti d’arte contemporanea non si preoccupino molto che le loro opere rimangano nel tempo. Alla materia è stata affidato il compito di essere arte e non mezzo espressivo. I materiali usati più delle volte non sono affidabili: la carta, la plastica, il cibo, la creta, il legno, gli elementi della natura che si annullano nella natura, che cambia, si evolve, si trasforma, i video, le performances ecc.. L’arte contemporanea è la più effimera rispetto a tutte le arti dei precedenti secoli. Già i futuristi volevano chiudere i musei. E l’arte concettuale? L’arte è testimonianza, storia, comunicazione che non può essere interrotta. Anche se l’artista non vuole che rimanga la sua opera, vuole sicuramente essere ricordato, quindi qualcuno deve pur farlo, altrimenti l’arte non ha futuro.
Tra le varie esperienze come insegnante, ha lavorato presso la Casa di reclusione di Spoleto. Quanto è importante l’arte per i ragazzi, e in particolare per quelli che si trovano ad affrontare la difficoltà di scontare una pena e trovare in qualche modo un riscatto?
L’idea del progetto P-ARTE DA DENTRO nasce dalla volontà di utilizzare il linguaggio dell’arte come strumento di comunicazione con lo scopo di far scoprire un mondo visto con gli occhi degli studenti della sede associata della Casa di Reclusione dell’Istituto d’Arte di Spoleto, facendo uscire dalle mura del penitenziario le loro opere per una mostra che ne valorizzasse le capacità espressive ed estetiche. Le discipline plastiche sono attività creative che, tramite l’azione progettuale, trasformano immagini e forme interiori in materia visibile e tangibile, quindi scultura come elemento ultimo. Operare attivamente nell’ambito artistico, mediante l’apprendimento e la sperimentazione di tecniche specifiche, con metodo e disciplina permette di favorirne l’obiettivo: la creatività come impulso vitale, come crescita umana, rafforzando la propria volontà di essere.
Consolidare le attività didattiche e artistiche all’interno della sede del Carcere ed esporre il risultato del processo creativo-espressivo, significa dare un contributo a manifestare e rivelare un mondo altrimenti rinchiuso e a ri-stabilire un’energia costruttiva fra interno ed esterno, fra passato e presente, in questa società troppo spesso indifferente al recupero e alla re-integrazione di certe potenzialità umane.
Come non essere curiosi di tante possibili forme espressive prodotte dall’azione di ogni persona alla quale si offra la conoscenza, gli spazi, i mezzi e gli strumenti per esprimere ciò che parte da dentro?
Ho cercato di “educare” i miei studenti alla visione e decodificazione dell’arte del ‘900, dalle Avanguardie (Cubismo, Futurismo, Dadaismo, Primitivismo) fino ai giorni nostri. Ogni studente ha scelto lo scultore che più si avvicinava alle loro forme interiori, rielaborando una o più sculture; altri invece, partendo da quelle suggestioni, hanno prodotto in maniera autonoma forme personali.
Ho scelto un materiale facilmente reperibile ed economico conosciuto con vari nomi commerciali gasbeton, siporex, itong, un materiale leggero da costruzione, simile ad una pietra naturale; l’aspetto è di colore bianco, duttile, si lavora facilmente con segaccio, martello, scalpello, trapano, raspe, lime.
Alcune opere sono state lasciate al naturale, con una protezione come unica rifinitura, altre invece sono state colorate con ossidi o altri tipi di colore.
La mostra diffusa si è sviluppata nel centro storico di Spoleto, coinvolgendo diversi esercizi commerciali che hanno aderito all’iniziativa offrendo le loro vetrine all’esposizione delle opere. Il percorso iniziava da Corso Garibaldi, nella parte bassa di Spoleto risalendo a corso Mazzini, attraverso la via Salaria Vecchia, per ridiscendere e terminare, dopo aver attraversato piazza del Mercato e via dell’Arco di Druso, in piazza della Libertà.
Il giorno dell’inaugurazione, durante il percorso guidato, man mano sono stati tolti i veli che coprivano le quaranta sculture dei venticinque studenti-artisti, poste nelle varie vetrine e presentata l’opera e l’autore augurandogli un futuro da artista.
Anche l’anno successivo, per premiare l’impegno degli studenti della casa di reclusione di Maiano di Spoleto, ho voluto allestire una mostra che è andata al di là dell’aspetto didattico, trattandosi di persone adulte con le quali il confronto è stato maturo, professionale e privo di pregiudizi.
Il mio compito è stato far scoprire loro un mondo diverso, un modo di “evadere” dalla realtà che vivono, facendo conoscere il linguaggio dell’arte.
Li ho seguiti e guidati in questo percorso artistico, tracciato insieme a loro, e ho voluto chiudere questo ciclo esponendo con le loro anche le mie sculture.
Sono state esposte, sparse nello splendido scenario del Parco Fonti del Clitunno, 50 sculture dei detenuti e 11 mie sculture. Il titolo della mostra, che ho immaginato, “Dalle Segrete F-orme” è legato al fatto che sono sculture realizzate all’interno di un carcere, ora le loro piccole segrete forme sono libere.
Fiori di loto
“Essere linea di luce” (2017, Tecnica e supporto Tondino di alluminio) è tra le tredici opere selezionate per il Premio COMEL Vanna Migliorin VI edizione. Cosa ha significato per lei la partecipazione al Premio e qual è il suo rapporto con l’alluminio come materiale creativo?
Non ho mai sentito l’esigenza di partecipare a nessun tipo di gare o concorsi in ambito artistico, ritenendo di esprimermi senza essere legata a temi, materiali, tempi e così via. È forse stata una casuale combinazione, che abbia avvertito la necessità di confrontarmi con altri artisti. Ho accettato la sfida andando quasi contro la mia natura, combattiva ma non competitiva. Un caso fortuito mi ha fatto conoscere il Premio COMEL Vanna Migliorin VI edizione, mentre stavo affrontando una ricerca personale sulla sinuosità del corpo umano nelle forme plastiche della danza, utilizzando l’alluminio che ben si legava al mio discorso ritenendolo ideale per la sua naturale leggerezza, flessibilità, per la sua luminosità.
Fiori di loto, da sempre collegati alla purezza, nella cultura indiana e buddista, per esempio, e anche alla rinascita e al Sole, nell’antica cultura egizia (il loto emerge dalla Nun, l’acqua primordiale da cui si faceva nascere anche il dio Sole). Recentemente i suoi fiori di loto in alluminio sono apparsi sulla neve, in NevicArte, Campo Staffi, Frosinone. Com’è nato questo progetto?
Anche l’invito agli eventi NevicArte, nelle varie località sciistiche della Ciociaria, è stato, per me, un’altra sfida, da prendere in considerazione: stavolta non con gli altri artisti ma con me stessa e con l’ambiente naturalmente suggestivo.
Anche in questo caso la forma si univa bene con la luminosità e la leggerezza dell’alluminio nello splendido scenario di una distesa innevata. La sfida iniziale sono stati i “fiori di loto” a Campocatino; sono seguiti poi i “bucaneve” a Campo Staffi; infine i “fiori di magnolia” a Prati di Mezzo. Il progetto è stata una visione: ho immaginato questi fiori spuntare dalla neve, col loro magico scintillio, per rafforzare a vicenda la loro candida purezza. Ho voluto onorare la sacralità della Montagna, creando per lei un ornamento sul suo manto bianco, degno della sua maestosità.
Nel futuro prossimo cosa c’è?
L’esigenza di avere normalmente qualcosa da fare, da dire, da dare, mi spinge verso una ricerca continua per conquistare la considerazione di me stessa nel mondo. Il futuro è per me un imprevedibile progetto da realizzare. Desidero generare arte costantemente e con passione, mantenere gli stimoli creativi dinamicamente attivi per mostrarne il risultato e cercare sempre di sorprendere.