Intervista a The Bounty KillArt
di Ilaria Ferri
Era il 2002 quando Gualtiero Jacopo Marchioretto, Rocco D’Emilio, Dionigi Biolatti e Marco Orazi, studenti all’Accademia delle Belle Arti di Torino, decisero di dare vita al collettivo The Bounty KillArt. Padroneggiando varie tecniche di pittura, incisione, fotografia, grafica e scultura e giocando con vari materiali dal gesso alla resina, dalla ceramica all’alluminio, il collettivo crea un ponte tra l’arte antica, neoclassica e rococò e l’arte contemporanea. Attraverso l’ironia irriverente e il nichilismo, stigmatizzano stereotipi e idiosincrasie dei tempi moderni. Hanno all’attivo importanti mostre personali e collettive, tra cui L’Air ne fait pas la chanson, a cura di Eva Menzio, nel Tunnel Riva a Monaco, Jackpot! alla Galleria Allegra Ravizza di Lugano, nel 2014, Oggi il kitsch, a cura di Gillo Dorfles, che si è tenuta nel 2012 alla Triennale di Milano, nel 2016 hanno esposto le loro sculture dissacranti accanto alle storiche ceramiche di Palazzo Madama a Torino.
Come è nata l’idea di un collettivo? Molti artisti seguono un percorso del tutto personale, di sperimentazione, di riflessione, di tematiche, come si conciliano più personalità, più percorsi? Come si giunge a un’opera che possa rappresentare tutti? Come si divide il vostro lavoro? C’è un iter specifico e dei ruoli predefiniti?
Ci siamo incontrati all’Accademia Albertina di Torino, facevamo corsi diversi ma ci ritrovavamo nel cortile a bighellonare e da qui abbiamo iniziato a collaborare per creare le prime opere. Non c’è una struttura preordinata, l’idea iniziale viene sviluppata insieme per cui la scultura finale è il prodotto del collettivo che è un’entità nuova che appartiene a tutti e a nessuno.
Come è nata l’idea di introdurre elementi ironici, surreali in opere classiche? Quanto è importante per voi l’elemento giocoso nell’arte?
È il risultato naturale dell’unione di due nostre passioni, quella per l’arte antica e per l’ironia nell’affrontare il quotidiano. Così abbiamo iniziato il nostro percorso sin dall’inizio, giocando lo stiamo portando avanti, certo non mancano i cambiamenti in noi ed in ciò che ci circonda ma il gioco resta un punto fermo a cui non vogliamo rinunciare.
Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per un paese di balocchi
Vi siete cimentati nell’utilizzo di materiali diversi (gesso, resina, plastica, metalli, ecc) e in varie tecniche dalla pittura alla scultura, dall’incisione alla ceramica, fino ad arrivare anche agli arazzi. Come avviene la scelta di un materiale o di una tecnica? Partite dall’idea che volete realizzare scegliendo tecniche e materiali più adatti o viceversa partite dal desiderio di sperimentare un materiale o una tecnica?
Ci piace sperimentare, nelle nostre opere ci rifacciamo a canoni antichi, anche l’uso dei materiali segue questa direzione, anche quando usiamo materiali moderni li usiamo per emulare quelli antichi, come nel caso delle nostre ceramiche che di ceramica non sono… ci divertiamo e giocare con la percezione dello spettatore alternando diversi medium sfruttandone pregi e difetti.
Si legge in una nota critica “Ecco allora la pratica dei Bounty: prendere la storia, intesa come cronaca della cultura popolare contemporanea, e importarla nella scultura che, attraverso il ready made del classico, diventa un’iperbole rappresentativa per parlare del patrimonio comune, unendo il passato con il presente”. La componente classica sulla quale innestate il presente deriva chiaramente dai vostri studi accademici, invece da quali fonti attingete per raccontare visivamente questa “cronaca della cultura popolare contemporanea”? Sin dalle scelte del vostro nome, alle vostre collaborazioni, fino ad arrivare a particolari delle vostre opere e i loro titoli si possono cogliere molte citazioni musicali, cinematografiche, videogiochi ecc, quanto incidono queste fonti sul vostro modo di pensare un’opera e di lavorare?
La nostra ispirazione attinge sia dal contesto metropolitano sia dall’enorme quantità di informazioni (più o meno sensate) dell’era digitale. La citazione è utilizzata come un gioco, spesso può suggerire una chiave di lettura dell’opera ma alle volte ci divertiamo a depistare lo spettatore. Sicuramente citiamo solo ciò che riteniamo degno di nota positiva o negativa, nonché utile a capire noi ed il mondo che ci circonda.
Livin’on the edge
Per comprendere appieno, e apprezzare l’ironia delle vostre opere, per la maggior parte dei casi è necessario avere una conoscenza di base dell’arte classica, barocca e rococò. Non avete timore di attirare un pubblico elitario?
Non necessariamente, molte sculture che rivisitiamo sono delle icone della storia dell’arte per cui, anche se non si è dei grandi conoscitori si comprende l’opera, in altre sculture invece è un po’ più difficile ma spero che possa essere uno stimolo a ristudiare la storia dell’arte per capire l’arte contemporanea.
Siete reduci da una esperienza presso il Museo d’Arte Contemporanea di Erarta a San Pietroburgo che ha ospitato la vostra personale A Glimpse The Future. Tra le varie sculture in mostra anche un monumentale scontro tra Zeus e Crono. Come siete stati accolti in Russia? Come è arrivata questa opportunità?
L’opportunità e arrivata per mail, la curatrice della mostra Dasha Varvarina s’è ritrovata in mano un catalogo di una nostra mostra presso Marcorossi Artecontemporanea di Milano e di qui è iniziata la nostra collaborazione. Arrivati a San Pietroburgo ci siamo accorti che tutti gli stereotipi che avevamo sulla Russia erano infondati, San Pietroburgo è una città dal fermento culturale incredibile, nonostante il clima freddo l’accoglienza è stata calorosa, oltre all’occasione di aver realizzato un’installazione di queste dimensioni siamo stati colpiti dall’attenzione del pubblico russo e speriamo di tornarci presto.
Gigantomachia
Tra la vostra produzione avete scelto Cast Away, una splendida fusione in alluminio, per partecipare all’ottava edizione del Premio COMEL Legami in Alluminio, aggiudicandovi la vittoria. In questa opera l’ironia è forse nel gioco di parole del titolo piuttosto che nella modernizzazione dell’opera stessa. Il riferimento al Galata Morente e al suo stato d’animo di sconfitto ed esausto ben si sposa con il concetto di naufrago dato dal giubbotto di salvataggio. Un richiamo all’attualità decisamente di spessore e in linea col tema proposto nell’edizione 2020-2021: i naufraghi oggi nella maggior parte dei casi sono persone che, sconfitte, abbandonano i propri legami, la famiglia e la propria terra in cerca di una vita migliore. Come è nata l’idea di partecipare al Premio e proprio con questa opera? Come è stata per voi questa esperienza?
Siamo venuti a conoscenza del Premio COMEL grazie ad una amica che ce l’ha segnalato e abbiamo pensato che fosse una buona occasione per esporre la nostra prima fusione in alluminio, che oltre per il materiale ci sembrava in linea con il tema del premio. Sicuramente siamo felici di aver vinto il concorso, ma ciò che ci ha colpito è la sincera passione che anima tutto lo staff del premio.