Intervista a Chiara A. Colombo
di Ilaria Ferri
Nata a Monza nel 1963, si è diplomata in pittura alla NABA di Milano nel 1987. La sua ricerca artistica si sviluppa dal segno quale elemento che indaga il sottile confine tra pittura e scultura. Da temi iniziali pressoché astratti, architetture, nuvole, angeli, nel tempo si è rivolta verso una dimensione più impegnata in chiave sociale ed ecologica senza perdere, anche in contesti di realismo, la liricità e la leggerezza che sono la cifra stilistica del suo lavoro. Incessante sperimentatrice di materiali, spesso utilizza elementi naturali e scarti tessili e metallici della produzione industriale per la creazione di sculture e dipinti. Riflettendo sull’opera di F. Goya ha creato disegni, sculture, incisioni calcografiche sul tema della pena di morte, talvolta in relazione a fatti di cronaca, come la vicenda dei nove attivisti Ogoni in Nigeria nel 1995, genesi dell’installazione Impiccati.
Hai affermato che l’opera Betulle (vincitrice di Infinito Alluminio la IX edizione del Premio COMEL), sebbene faccia parte di un progetto più ampio, è nata appositamente per il Premio. È un’opera che, partendo da una raffinata citazione cinematografica (L’Infanzia di Ivan di Andrej Tarkovskij – 1962), affronta il tema della guerra, e della ciclicità di certi conflitti contrapposta alla ciclicità immutabile e infinita della Natura che osserva impassibile gli orrori prodotti dall’Uomo. Una contrapposizione non solo concettuale ma anche formale. Parlaci di questa splendida opera. Come è nata l’idea di iscriverla al Premio COMEL?
Ho realizzato l’opera Betulle appositamente per il Premio COMEL 2022 rielaborando un’idea che in nuce e anche come tecnica avevo sperimentato in un lavoro presentato al MAC di Lissone nel 2009 dal significativo titolo “Crimea”. Anche Betulle, dunque, è una riflessione sulla guerra, riflessione che non è puramente legata a quella recente e vicina russo-ucraina: in primo piano giace la sagoma solitaria di un soldato e sullo sfondo un bosco di betulle con il suo incedere monotono di linee verticali ne commenta silenziosamente la morte. La mia interpretazione del tema del concorso, “Artista può essere solo chi ha una sua religione, una intuizione originale dell’infinito”, non è relativa all’infinito matematico ma all’infinito esistere della Natura, alla contrapposizione tra l’infinità del ciclo della Natura, fonte di vita e di benessere, e l’infinità degli orrori della Storia. La natura assiste immobile, spettatore silenzioso ma sempre presente agli eventi drammatici della storia. Questa idea nasce anche dalla suggestione del film di Tarkowskij, “L’infanzia di Ivan” (1962) in cui le vicende tragiche della seconda guerra mondiale narrate sono ritmate dal bosco di betulle che caratterizza l’ambiente russo-ucraino in cui si svolgono. Mi ha colpito quanto A. Anniballi ha scritto a proposito del bosco del film “quel bosco incantato che rappresenta ancora e sempre la possibilità di aggrapparsi ad un residuo di bellezza per poter ritrovare, anche solo per un attimo, il senso dell’esistere al di là di ogni guerra”.
La contrapposizione di cui sopra è evidenziata anche dalla tecnica di “Betulle”. La sottile lastra di alluminio è graffiata, violentata dalle incisioni della puntasecca e dai colpi di martello che ne muovono la superficie creando dei rilievi. Il colore a olio interviene a rilevare delicatamente il segno e in alcune aree produce riflessi blu-verde e bruni. Il colore non nasconde la superficie metallica, che campeggiando intatta in buona parte dello spazio, acuisce drammaticamente il senso di assenza relativo al soggetto raffigurato. Questo vuoto, inoltre, evidenzia in parte anche il ruolo degli spettatori e dell’ambiente che, come ombre mobili, si riflettono sulla superficie semi specchiante dell’alluminio, donando mutevoli forme al dipinto.
L’opera che ha anche una valenza narrativa fa parte di una serie che intendo presentare completa nella mostra personale allo Spazio COMEL di Latina a maggio. Le mie opere si leggono spesso sia in modo autonomo che come parte di un insieme, come individui in un gruppo sociale.
Viaggio del sole, 1990 – tecnica mista su carta intelaiata e scultura di salici e acciaio
Nei tuoi lavori utilizzi diversi materiali, dagli scarti tessili e metallici della produzione industriale a elementi naturali. In particolare l’alluminio è uno dei materiali che utilizzi maggiormente, qual è il tuo rapporto con questo metallo? Cosa significa per te partecipare a un concorso incentrato su un materiale a te così caro?
Ho iniziato il mio percorso artistico nella tridimensionalità usando materiali trovati nella natura, rami di salici a cui aggiungevo piccoli scarti metallici. Successivamente ho realizzato i miei segni scultorei con elementi tubolari di alluminio, uniti ad incastro o rivettati, come nell’installazione “Sedie”, per la mostra nel giardino di Villa Braila a Lodi, 2004, riproposta anche nello spazio interno della saletta reale della stazione di Monza. Le sedie, alte circa 250 cm, e le fantasmatiche figure che in alcune appaiano, sono sculture lineari e leggere come profili che non si impongono nello spazio con la massa ma grazie alla lucentezza del materiale hanno una notevole visibilità nel contesto.
Nel 2009 ho iniziato invece ad usare lastre di alluminio crudo sottili come fogli di carta ma, a differenza di questa, resistenti, in grado di sopportare incisioni e lacerazioni. Per la mostra “Presenze del contemporaneo” al Museo di Arte Contemporanea di Lissone, 2009 ho realizzato un lavoro (cm200x200) dal titolo Crimea dove ho affrontato il tema della guerra ripreso poi nell’opera “Betulle” creata per la IX edizione del Premio COMEL 2022.
In alluminio cotto, lavorato con movimenti più morbidi e plastici, ho realizza dei fiori giganti e fantastici, rielaborazioni scultoree di disegni infantili, per la mostra al Belvedere della Villa Reale di Monza nel dicembre 2021.
Data la non occasionalità quindi dell’uso dell’alluminio nella mia ricerca artistica, il premio assegnatomi da una giuria così autorevole mi riempie di gioia e mi consolida nel percorso intrapreso.
Sedie, 2004 – Alluminio. Particolare dell’installazione di Villa Braila, Lodi
Nelle tue opere c’è sempre un riferimento a tematiche fondanti, a fatti di cronaca legati alla soppressione di diritti umani o all’iniquità della violenza. Quanto è importante per te raccontare attraverso l’arte ciò che ti colpisce, ciò che scuote il tuo animo? L’arte secondo te deve avere una valenza sociale e pedagogica o più semplicemente è un catalizzatore di sensibilità affini?
Da giovane ho fatto anni di volontariato con ragazzi emarginati o disabili e militato in gruppi antimilitaristi. Ho mantenuto viva questa sensibilità e attenzione per i drammi del nostro tempo che esprimo non tramite un’azione diretta bensì attraverso il linguaggio visuale dell’arte.
Nei miei lavori, non viene mai rappresentato direttamente o in modo crudo il fatto. C’è sempre una rielaborazione poetica e non perché la pena di morte o la guerra possano essere in qualche modo positive ma perché queste situazioni, che sembrano caratterizzare monotonamente l’esistenza umana, andrebbero meditate nel silenzio.
L’arte è per me questo modo di riflettere e di rielaborare cose che non comprendo e mi turbano come ad esempio il fatto che in una società ricca come quella contemporanea ci sia gente che muore di fame di freddo o deve vivere per strada, per terra, nell’indifferenza generale. I disegni a carboncino sugli homeless sono fatti su foto scattate da me di notte nelle vie ricche del centro di Milano.
Citi spesso la leggerezza calviniana, che applichi fedelmente nelle tue opere: a temi importanti, spesso cupi (come la malattia mentale, la guerra e altri) contrapponi una liricità, la lievità di tratti, forme e composizione sia nei tuoi quadri che nelle installazioni e sculture. Come nasce questa esigenza sia dal punto di vista tematico che compositivo?
“Bisogna essere leggeri come un uccello, non come una piuma” diceva P. Valery e Italo Calvino nelle sue Lezioni americane: “Esiste una leggerezza della pensosità… La leggerezza per me si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso”. Cioè la leggerezza non significa indecisione o fragilità.
Clement Greenberg scriveva: “Picasso vede il quadro come un muro, Klee come una pagina”. Io ho lo stesso sguardo di Klee. La mia pagina sono strati di carta velina, una lamina di alluminio dello spessore di mezzo millimetro, una traccia sottile. Nelle mie opere l’ombra ha spesso un senso di realtà e concretezza superiore alla cosa che la genera. La leggerezza non è una fuga dalla realtà e dalle tragedie che la connotano ma è la capacità di non farsi atterrire e soffocare da essa. La leggerezza è una proprietà dell’aria, della luce, del respiro, la leggerezza è andare verso l’alto, è una forma di speranza. Il problema della gravità di alcune situazioni di ingiustizia non sta nell’impossibilità fisica, materiale, di risolverle ma in quella mentale di concepire la soluzione. Quindi l’arte può svolgere un’azione politica efficace più di quella degli uomini di potere operando sul cambiamento di orizzonte, sull’affinamento della sensibilità.
Sedia elettrica, 2000 – Acquaforte, puntasecca e a secco
La Natura, e più in generale la tematica ecologica, torna spesso nelle tue opere. Osservando i tuoi lavori si direbbe che la Natura è a volte qualcosa che salva, o che osserva impassibile l’Umanità compiere errori senza intromettersi, forte del fatto che in qualche modo i suoi cicli supereranno ogni contingenza attuale. Qual è il tuo rapporto con l’elemento naturale?
Ho iniziato a costruite sculture o elementi tridimensionali dei miei dipinti con i rami di salici che i contadini usano per le legature, affascinata dalla loro flessibilità e linearità. Come artista mi ha poi molto colpito il corso monografico di V. Fagone su Arte e Natura l’ultimo anno di Accademia e seguo sempre con interesse i progetti come Arte Sella e gli artisti che si cimentano con la grandiosità degli spazi naturali.
Per me la natura è il liquido amniotico in cui siamo immersi. Noi abbiamo bisogno della Natura, non il contrario. La difesa della natura è la difesa dell’umanità al suo più alto livello. L’atteggiamento di distruzione della natura si apparenta alla distruzione dell’uomo. Il bosco di betulle dell’opera citata è una sorta di invito a riflettere su ciò.
In occasione dell’abbattimento di 150 alberi di una parte storica del parco di Monza per allargare la pista dell’autodromo avevo realizzato l’installazione “metamorfosi di un parco” nel 1996 in collaborazione con due amici fotografi. Un po’ mi rattrista vedere che i più, almeno nella mia città, danno per scontato l’esistenza di un polmone verde e per contro si entusiasmano per quei polmoni grigi che lo abitano come un cancro.
Sin dai tempi dell’Accademia ti sei soffermata sul “segno come sottile confine tra pittura e scultura”. Nei tuoi lavori diversi linguaggi e tecniche si fondono in uno scambio che vede quadri polimaterici punzonati, martellati, scolpiti e viceversa sculture bidimensionali, narrative, lineari. Che strumento diviene il Segno nelle tue mani nel momento della creazione di un’opera?
In tutto il mio lavoro artistico è evidente l’interesse per il segno sia esso la linea di matita, la traccia di inchiostro, del carboncino, quello inciso della calcografia o quello tridimensionale dei fili scarto di tessitura, dei polloni di salici, del filo di ferro etc. Ho indagato teoricamente questo spazio dell’arte partire dalla tesi di Accademia di Belle arti “Gastone Novelli in dialogo con Klee”. L’interesse per il segno ha a che fare con il discorso della leggerezza, con il fascino del balbettio infantile, con l’equilibrio tra vuoto e pieno e con l’ambiguità della percezione dello spazio e della sua profondità.
In questo senso, anche se difficile a vedersi perché il mio lavoro è tutt’altro che organizzato in modo matematico e programmato, le lezioni in accademia di Gianni Colombo mi hanno aperto la mente e affascinato.
Fiori, 2021 – Alluminio cotto, installazione presso Belvedere della Villa Reale di Monza
Le tue opere nascono da una serie di riflessioni scaturite spesso da letture, dalla visione di film, osservazione di altre opere d’arte. Il tuo universo artistico è costellato da musica, citazioni, omaggi, richiami. I tuoi lavori sembrano quasi essere mezzi utili a esprimere un flusso di coscienza che unisce questi contenuti e ne crea quasi una mappa concettuale. Come nascono questi collegamenti? Sono voluti o sono espressione di un fermento mentale e sentimentale spontaneo?
Mi reputo abbastanza ignorante in campo musicale, il mio ascolto è per lo più casuale e in genere fa da sfondo ad altre attività. A volte però ho trovato dei brani particolarmente efficaci in relazione al mio lavoro. È il caso di Monostress 225 de Les Tambours du Bronx, un gruppo francese di percussionisti che riciclano con funzione di tamburo grossi bidoni vuoti di petrolio. Ho usato la loro musica per la mostra ”Impiccati” – a cura di A. Von Furstenberg, Milano, 1996 – perché questo suono tra il tribale e l’industriale era efficace in relazione al tema dell’installazione, ovvero alla vicenda dei nove attivisti Ogoni, impiccati in Nigeria nel 1995, che protestavano contro l’inquinamento e sfruttamento massivo del territorio da parte delle industrie petrolifere.
Un autore poi che amo particolarmente è Fabrizio de Andrè. L’installazione “la maggioranza sta” deriva il titolo da “Smisurata preghiera” (Anime salve, 1996). La sintonia con il cantautore genovese sta nella pungente delicatezza con cui tratta persone e situazioni. Ispirata ai volti assenti e inespressivi dei passeggeri in metropolitana l’opera consiste in una moltitudine di piccoli dipinti di volti e teste in filo di ferro sparsi sulla parete, una folla, appunto la maggioranza, di gente statica che vede scorrere l’esistenza passivamente evidenziando un senso di profonda incomunicabilità.
Al contrario della musica amo molto la poesia e il cinema d’autore in particolare. Ritengo il cinema la forma artistica più elevata. Ha solo il difetto che dura un tempo limitato e non può essere appeso al muro o accompagnarti nella tua esistenza quotidiana. Il tempo di fruizione lo decide il cinema mentre quello della pittura o scultura lo decide lo spettatore.
Di Tarkowskij amo i film, le polaroid che ha scattato in Italia, il suo testo teorico “scolpire il tempo”.
Mi piace la parola scritta che ho più volte tradotto in linguaggio visivo come nella scultura fatta di elementi metallici e salici “Soldati” (trascrizione della poesia di Ungaretti omonima “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”).
Infine, è fondamentale il rapporto con la pittura e scultura. Klee, Kiefer, Bourgeois, Kiki Smith sono gli artisti che mi interessano attualmente di più oltre a Tiziano, Rembrandt e Tintoretto. Mi piace fare dei tributi agli artisti che mi hanno influenzato, come peraltro fecero pittori ben più celebri di me (sto pensando ai disegni di V. Gogh su quelli di Millet) e in questo senso ho in mente un progetto su Gastone Novelli, l’artista su cui ho fatto la tesi all’Accademia di belle arti.