Intervista a Claudio Bozzaotra
di Rosa Manauzzi
Nasce a Napoli, vive e lavora a Marigliano (NA); architetto, già docente a contratto di Progettazione Architettonica presso la Facoltà di Architettura di Napoli. Ha preso parte alla Biennale di Venezia di Architettura nel 1985 e nel 2000. Ha pubblicato ‘La dimensione dell’immaginazione’ (He-velius Ed., Benevento, 2000). Alterna l’attività professionale a quella artistica tenendo, a partire dal 1 979, mostre d’arte personali e collettive, in Italia e all’estero. Le sue opere fanno parte di collezioni pubbliche e private.
Da diversi anni hai fatto parte del consiglio di Dipartimento di progettazione architettonica e ambientale della Facoltà di Architettura di Napoli e dal 2000 sei docente incaricato presso la facoltà di Architettura di Napoli. Un’attività impegnativa e di responsabilità a livello educativo che si aggiunge, o probabilmente si interseca, al tuo impegno artistico. Se volessi tracciare brevemente le tappe della tua formazione, quali ritieni fondamentale per l’artista che oggi rappresenti?
Beh, a dire il vero la mia intenzione da adolescente era di seguire studi artistici, liceo artistico ed Accademia, ma poi non trovando d’accordo mio padre, anche lui dedito ad attività di pittore e scultore ma titolare di una fabbrica di ceramica artistica e pertanto legato ad una visione artigianale della pratica artistica, ho ripiegato su studi che mi indirizzassero verso l’architettura. Una volta lì però ho sostenuto con vigore il valore ed il rapporto dell’architettura con l’arte, fino a diventare tema della mia tesi di dottorato di ricerca. Una volta coinvolto nell’attività didattica, sebbene a contratto, ho avuto modo di sostenere e di divulgare le mie idee al riguardo. Con ciò, devo dire però, le due attività hanno viaggiato parallele, ma senza ostacolarsi o banalizzarsi tra loro, e questo è potuto accadere anche a seguito della frequentazione dei due ambienti, che a differenza di quanto si possa credere, non sempre sono così in rapporto e anzi spesso vivono della diffidenza dei diversi operatori. Da docente, e ora attraverso l’organizzazione di convegni, ho impostato l’attività invitando rappresentanti di diverse discipline, e non solo artistiche, a discutere di architettura in modo da poter avere e integrare le varie esperienze a fini di stimolo.
Ti occupi di Progettazione architettonica, restauro e conservazione, da una parte, e dall’altra di architetture temporanee e installazioni. Un’attività che sembra dividersi in pratica tra memoria storica e contemporaneità. Quali sono i punti in comune, le caratteristiche fondanti che ricerchi in questa apparente dicotomia?
In verità ho avuto una sola occasione di interessarmi di restauro e quindi di conservazione di un bene che avesse valenza legata alla memoria antropologica di un luogo e degli uomini, ma comunque ho tenuto fede alla nostra contemporaneità essendo convinto della non idonea attività del restauro stilistico, quindi rispettando le parti che fossero proprie alla storia del manufatto e del luogo, ma intervenendo, sebbene in modo sobrio, nel rispetto proprio dell’uso del contemporaneo e con materiali che dialogano tra loro ma ben distinti.
Alcune tue opere sono dedicate al sacro, sembrano oscillare tra spiritualità e metafisica. I corpi sono leggeri, rarefatti, tendono verso il cielo o comunque sembrano essere sospesi nel tempo. Una sospensione che conferisce loro leggerezza e allevia anche il dolore. Il sacro è sempre un tema molto intimo e difficile, quasi rischioso, da ‘offrire’ al pubblico. Dove termina la visione personale e inizia l’interazione con chi osserva l’opera? E quanto l’opera può violare i valori estetici condivisi? Penso ad una tua mostra, di tempi recenti, dal titolo “Il fringuello impertinente” in cui hai unito sacro e profano come termini inscindibili.
Il sacro, è vero, richiede coraggio ad approcciarcisi e soprattutto quando non si vuole essere banali o quando bisogna essere rispettosi del proprio linguaggio. Sin da bambino, avendo avuto la fortuna di ammirare tra chiese e musei le opere dei grandi maestri, sono sempre stato affascinato da come potesse essere varia l’interpretazione delle scene sacrali. Poi, però, l’interesse si è spostato sul contemporaneo, ed ho potuto notare quanto fosse difficoltoso pensare all’opera d’arte contemporanea relativa al sacro e di lì è nata la ricerca prima, lo studio e quindi lo svolgimento del tema. Un interesse espresso in modo laico ma rispettoso, che mi ha portato a frequentare la facoltà teologica per gli approfondimenti del caso, la biennale di arte sacra a San Gabriele, e tutte quelle occasioni che mi erano possibili per l’accrescimento. Poi una curiosità: le diverse rappresentazioni del San Sebastiano (santo patrono del paese in cui vivo), una vera rivelazione, un santo di cui esisto innumerevoli interpretazioni e, per la scoperta che ha rappresentato per me, ha persino prodotto un testo per un libro che poi non mai pubblicato. Ma quella stessa scoperta di vedere San Sebastiano rappresentato e spesso con fare ludico tra il sacro e il profano ha poi, inconsciamente, prodotto in me la nascita della serie “il fringuello impertinente” dove la relazione tra il disegno, sempre uguale, del simpatico pennuto con argomenti che oscillassero tra il sacro e il profano è sembrato congeniale.
Stato d’animo
Pittura e fotografia sono due strumenti espressivi che prediligi. Probabilmente non sfuggono ai nuovi mezzi tecnologico-informatici. Il mondo individuale dell’artista, la sua immaginazione, entra in contatto con il mondo virtuale e anche con la facile oggettivizzazione che internet consente, diciamo pure mercificazione. E’ ancora possibile difendere la propria creazione intima? E come rapportarsi al ‘visuale’ che viene condiviso con tanta facilità?
Il tema del rapporto reale-virtuale è stato l’oggetto della mia tesi di Dottorato in composizione architettonica il cui frutto è stata poi la pubblicazione del testo “La dimensione dell’immaginazione” edito da Hevelius, Benevento nel 2000. Il dibattito intorno al problema dell’avvento della realtà virtuale è piuttosto contrastante nei giudizi, ma l’esperienza del ritorno al mito sancito dall’avvento della fase Postmoderna ci consegna una realtà dematerializzata, una realtà che, alla luce anche delle recenti conquiste tecnologiche, ci rende partecipi ai nuovi eventi, offrendosi come luogo simbolico dove lo scambio consiste nella pura relazione e nella diffusione delle culture, e dove l’avventura umana, per secoli espressa nel viaggio e nel mito, oggi ci proietta in un futuro in cui l’informatica, le realtà virtuali, comunque le tecnologie cambieranno molto la nostra vita, che basata sull’immagine contribuisce alla costituzione di un nuovo immaginario.
Un immaginario a cui, per la prima volta, concorre anche la “macchina” e non più solo l’uomo, che con il computer è capace stabilire una forte complicità con la propria mente. Il difficile rapporto tra l’arte e le nuove tecnologie ha sempre fatto sì che oscillasse tra momenti di attrazione e rifiuti reciproci; dopo tutto è proprio grazie all’evoluzione tecnologica se l’arte del ‘900 è stata soprattutto avanguardia, e dopo la video-arte degli anni ’70 e ’80, i nuovi sviluppi dell’arte elettronica prende il nome di Digital Art, che vede protagonista il computer offrendosi quale strumento per l’espressione dell’immaginazione del futuro. In tutti i campi dell’espressione è possibile oggi registrare profondi cambiamenti, per poter ristabilire la relazione tra arte, cultura e tecnologia, e nelle opere sappiamo come possiamo ripercorrere il percorso dell’immaginario collettivo.
Per quanto riguarda il mio lavoro più che sull’uso dei medium il rapporto è da ricercare sul piano concettuale con la messa in scena di un medium complessivo dove la composizione della stessa opera e le immagini (anche loro con diversi medium espressivi) tendono a dare vita ad un ipertesto interpretativo. Mi preme dire che, ahimè, non sono mai stato un grande appassionato della fotografia, o meglio della pratica del fotografare, ma spesso uso immagini fotografiche raccolte anche dal web che poi manipolo a mio uso e consumo.
Una tua installazione, dal titolo misterioso “A parte hominis”, viene definita “l’icona perfetta dell’omotossicologia: il corpo come contenitore di energia (prodotta in quel secondo cervello che è l’addome) che suscita risposte immunitarie”. Qual è l’origine di quest’opera? Quali sono le altre discipline che arricchiscono la tua arte?
Le installazioni spesso scaturiscono anche dal luogo dove esse poi si manifestano per la prima volta (poi l’opera cerca di riproporsi ovviamente). Nel caso citato questa avveniva all’interno di un campanile con vista dalla strada attraverso un cancello, ed ovviamente il rapporto tra il corpo (rappresentato) e la mente di chi ne fruiva passando ha fatto gioco sulla riflessione di chi ha scritto il testo; emblematico il dilemma di un critico, medico di professione, che non sapeva se più attratto come critico o come medico.
I tuoi maestri di riferimento sono cambiati nel tempo? I principi di Marcel Duchamp sembrano essere una costante.
Credo sia normale cambiare i riferimenti a seguito della maturazione culturale… Dai primi anni appassionato del lavoro di Salvador Dalì (comune credo a molti adolescenti) ho finito poi per interessarmi di più alla materia e al concettuale. Esempi? Poteri dire che mi hanno incuriositi i lavori di Osvaldo Licini e Gastone Novelli, per poi affermare che il mio preferito è Giulio Paolini, ma un’opera che vorrei possedere è una delle combustioni di Alberto Burri.
Per assenza esiste come il vuoto
A Fabriano, hai partecipato alla collettiva “Ridateci la terra”, una mostra di cinquanta spaventapasseri. Qual è oggi il contributo che un architetto può dare contro l’edificazione selvaggia a cui assistiamo ogni giorno. Non sembra esserci solo un’emergenza di bellezza (qualità degli edifici) ma soprattutto di terra, che viene continuamente sottratta a danno del verde. Si è ormai arrivati alla convinzione che una città possa essere davvero un blocco coeso di costruzioni lontane dalla natura, che possa fare a meno di flora e fauna.
Domanda non facile da rispondere. Io sono per la distinzione Città-campagna, amo della città la continuità urbana e ritengo malsano pensare parchi residenziali chiusi o una “spruzzatina di villette monofamiliare qui e là. Ritengo che il dramma delle periferie sia stato proprio questo approccio di scollamento dal nucleo originario della città accompagnato poi da dimensioni stradali lontani dalla dimensione urbana del passeggio dello sguardo alle vetrine e così via… Anzi oso pensare che non è un caso che gli outlet abbiano assunto l’assetto di cittadina per il loro fine commerciale, e dirò di più: sono anche contro, a dispetto dei premi ricevuti, ai surrogati tipo “Bosco verticale” ad opera di Stefano Boeri a Milano.
Quest’anno sei stato selezionato tra numerosi artisti europei che hanno partecipato al bando del premio “COMEL Vanna Migliorin – Arte contemporanea”. La tua opera, “Migrazione”, è una metafora tra ombre cinesi e speranza di lidi lontani. Sembra una visione quanto mai attuale. Puoi raccontarci la storia di questa creazione?
L’opera è nata soprattutto sulla volontà di voler fare un lavoro con l’alluminio. Che questo non costituisse solo un supporto ma che conservasse la valenza del materiale e quindi, movendomi sul piano bidimensionale e con fare pittorico, mi è venuta l’idea di sovrapporre due lastre lasciando alla metafora dell’ombra cinese il gioco interpretativo.
Un progetto che ti piacerebbe realizzare.
E’ difficile sceglierne uno vista la dimensione professionale di architetto in cui mi muovo… ovviamente un’opera pubblica e forse dovendo scegliere mi piacerebbe realizzare una chiesa in modo da affrontare il tema su entrambi i versanti: quello architettonico e quello artistico.