Intervista a Fabrizio Sanna (GOA)
di Rosa Manauzzi
Nel 1995, colto da improvvisa ispirazione, incomincia a dipingere le prime tele, caratterizzate da elementi puramente figurativi. Dopo due anni irrompe l’astrazione, ed è la tecnica dell’action painting a dominare da subito. Nell’anno 2000 entra ufficialmente nel mondo dell’arte contemporanea con una mostra personale presso la galleria “La Bacheca”, a Cagliari.
Dal 2007, firma le proprie opere col nome Goa ed esordisce nel web esponendo tutti i dipinti online. Nello stesso anno costruisce uno spazio espositivo privato a Villasimius, il Goa studio, dove vengono esposti i quadri astratti più recenti. A maggio dell’anno 2009 inaugura, sempre a Villasimius nella via Umberto I, uno showroom personale aperto al pubblico, il Goa Gallery.
Le opere, ora, sono caratterizzate da una vasta varietà di forme e oggetti accumulati su tela, collage di materiali riciclati. L’energia è l’elemento che esplode letteralmente sulla tela.
L’artista è alla costante ricerca di nuove idee variando, sperimentando e perfezionando la tecnica dell’action painting e del dripping, in modo da offrire al pubblico una varietà di dipinti ognuno con un personale tocco di unicità e originalità. Nel 2013 vince il premio COMEL del pubblico per l’opera “Via Lattea”.
Fabrizio Sanna, in arte Goa. Il tuo incipit artistico è stata un’autentica “chiamata alla vocazione”. Che cosa è accaduto esattamente, ricordi il momento in cui hai deciso di dedicarti all’arte? E perché cambiare anche il nome? Cosa significa per te Goa?
Certo, ricordo bene… e come hai detto tu è stata una vocazione, una chiamata. Ero ancora un under 18 e iniziai a dipingere all’improvviso. Il mio primo quadro, un inchiostro su cartoncino, lo realizzai per la mia fidanzata alla quale feci anche una promessa: da grande sarò un pittore famoso. Grandi progetti avevo da giovane, eh? Qui iniziò il mio percorso e dal mio primo incontro con la tela bianca capii, fin da subito, che l’arte era materia seria. Quella semplice tela bianca mi mise timore; mi disse: e ora osa, disegna, esprimiti. E invece, proprio la prima volta, non feci niente. Ero assolutamente inerme e spiazzato da una cosa così semplice e candida come il bianco della tela. Non riuscii nemmeno a toccare il pennello. Tutta la mia euforia di iniziare a dipingere, le mie idee, le mie fantasie si vaporizzarono all’istante. Compresi che per diventare famoso, che fare arte seriamente, e dipingere con metodica professionalità ci sarebbero voluti, anni, lustri, decenni. Comunque gli anni scorrono velocemente e piacevolmente. Il tempo sembra non aver timore dell’arte. E proprio col suo passare cambiò sia il mio stile pittorico, che all’inizio era figurativo approdato poi alla più estrema astrazione, e sia il mio stile di vita. Dopo circa 15 anni presi la decisione di darmi un nome d’arte, in quanto di pittori omonimi era pieno… volevo un’esclusiva e sceglierlo non fu facile, anzi fu un’impresa. Alla fine giunse spontaneo. Mi dissi: ma certo! Ogni quadro che faccio viene fuori grazie alla musica che ascolto durante la sua esecuzione; la musica Goa trance. Certo! sarà Goa. Andai subito su Google per vedere se al mondo vi fosse un’artista che riportasse lo stesso nome e con mia grande gioia e stupore il nome era “libero” dominio. E così, Goa fu.
L’action painting e il dripping hanno finito per dominare sull’arte figurativa che avevi sperimentato inizialmente. Hai scelto quindi di stare al passo con il ritmo contemporaneo, con la rappresentazione immediata in cui materiale e idea vengono resi sulla tela nello stesso momento. Almeno questo è ciò che spesso si crede. C’è una fase meditativa nel creare un’opera con queste tecniche che sembrano schizzare fuori insieme al soggetto che l’artista ha in mente o è davvero questione di ‘cogliere l’attimo’?
Il passaggio tra il figurativo e l’astratto fu alquanto veloce e del tutto spontaneo. Da subito avrei voluto iniziare con i lanci dell’action painting, ma il mio “io” non me lo permise. Mi fece fare “la gavetta”, passando prima dal figurativo. Per intenderci, non è che sia proprio bravo nel disegno… infatti quei primi quadri, ormai distrutti, erano davvero opere orribili. Ma come uno scienziato, ogni tanto andavo nel mio piccolo laboratorio a sperimentare, e dose dopo dose, dopo due anni, arrivò il primo lancio. A livello personale fu un trionfo, anche se ero all’oscuro che la salita stava diventando sempre più ardua. Eh sì, ero entrato nella casa dell’astrazione per eccellenza, quell’astrazione che entra nel cuore dell’osservatore solo tramite apposite cifrature e codici mentali. I miei quadri sono odio o amore a prima vista e solo se il mio io riversato sulla tela viene recepito e decifrato nel giusto senso si trasforma in un’esperienza unica. E questo me lo confermano i miei fans che mi scrivono numerosissimi confidandomi che si sono emozionati osservando i miei quadri addirittura da un mezzo così freddo come può essere il web. Tutto questo è la conferma che il mio operato, la mia astrazione, è stata diretta come un figurativo iper-realistico; quei semplici schizzi, nel loro armonico insieme sono riusciti a trasmettere all’osservatore l’essenza dell’arte: “emozionismo astratto” lo chiamano. Per me è semplicemente pura magia. Mi hai chiesto se prima di eseguire un’opera ci sia una fase meditativa. Assolutamente no. Un astratto, deve essere al 100% un atto involontario e spontaneo guidato dall’io più intimo e profondo dell’artista… altrimenti è semplice figurativo.
Per comporre le tue opere, in genere ascolti musica techno. Sul tuo sito indichi anche quali sono gli autori musicali che accompagnano la tua azione. Com’è nata questa simbiosi artistica?
La musica techno come la Goa trance e la musica elettronica, sono state un passaggio fondamentale per la mia produzione artistica. Grazie ad esse sono riuscito a creare una produzione “deep inside”, una produzione che scava nel mio intimo. Grazie alla profonda concentrazione che riesco a trovare ascoltando queste sonorità, riesco a creare spontaneamente opere che altrimenti non avrei non solo concepito, ma neanche immaginato. E allora la domanda sorge spontanea: perché l’astratto è una tecnica molto difficile da eseguire?
Risposta: perché bisogna riuscire a trasmettere all’osservatore una storia, un pensiero, un’emozione, “semplicemente”, senza disegnare niente sulla tela. Quindi non si ha come nel figurativo un rapporto diretto tela-campo visivo come ad esempio il disegno di un cuore che solo a guardarlo fa venire in mente una serie infinita di emozioni, ricordi e sensazioni. Con l’astratto si gioca pesante. Non bisogna semplicemente proiettare un disegno; occorre riuscire ad aprire il server, il caveau dell’osservatore; serve una password. E il passe-partout per aprire il cuore di uno sconosciuto è la magia dell’arte abbinata ad una adeguata armonia cromatica riversata sopra la tela. Entrano in gioco colori, ombre, linee, che devono essere posizionati in parti ben precise della tela. Bisogna creare un’elegante armonia che riesca a penetrare nella mente dell’osservatore. Penso che l’action painting, non solo sia la tecnica più difficile in assoluto (un solo lancio sbagliato ed il quadro si sbilancia ed è da buttar via), penso che sia anche la madre di tutte le astrazioni.
Ma ora arrivo al punto… la simbiosi tra musica ed arte. Quando mi metto una tela bianca davanti, una grande tela, ho sempre paura. E mi chiedo sempre: adesso cosa faccio, cosa disegno, cosa voglio trasmettere sopra? È sempre stato così, sin dall’inizio. Mi son sempre detto; se voglio fare astratto tutto deve essere involontario, tutto deve essere come una magia, e per esser tale io non devo controllare le fasi esecutive dell’opera, deve essere il mio inconscio a farlo.
È per questo motivo che abbino la musica elettronica all’astrazione. Io con queste sonorità entro in “fase Rem” già dalle prime note e il dipinto vien fuori da solo. Astrazione pura al 100%. Sarà lavoro dell’osservatore riuscire in seguito a decifrare il messaggio infuso dal mio più profondo io. Se riuscirà a trovare la chiave di cifratura sarà come ho detto prima, amore a prima vista.
L’illusione di vivere
Il tuo giudizio sull’arte contemporanea è lapidario. Affermi che ci sono artisti, ormai noti e quotati, che hanno l’arroganza di rendere pubblici lavori che di artistico non hanno nulla; mi riferisco ad esempio ad alcune tue considerazioni riguardo qualche opera del Museo di Arte Moderna di Milano. Anche i musei che li ospitano hanno delle responsabilità. Qual è secondo te il confine tra l’arte e l’abuso dell’arte?
Sì, su quest’argomento sono molto deciso. Siamo nel XXI secolo, siamo nell’era del voglio tutto e subito, della condivisione, dei selfie. Tutto avviene in maniera rapida ed immediata. Così come le quotazioni di molti artisti. Dall’oggi al domani le loro quotazioni si impennano. Così boh, beh, mah! Siamo come nella borsa finanziaria, titoli che scendono e salgono alle stelle senza che nessuno ne comprenda il motivo. Il risultato? L’artista oggetto di tali “statistiche” diventa la star del momento, trovandosi davanti una richiesta mondiale enorme affamata di opere d’arte da usare come investimento. Richiesta dettata appunto dalla fittizia quotazione di mercato dell’artista. Il pittore, che naturalmente non può reggere tali ritmi, pur di vendere inizia a mettere nel mercato una marea di quadri o produzioni prive di vita propria; chiamiamoli disegni, dai. L’ego dell’artista esplode invadendo la sua anima, e vi sono artisti che scarabocchiano semplicemente la tela dicendo: tanto ormai sono famoso e riesco a vendere qualsiasi cosa sia firmata da me. Il potere, il potere ha sempre fatto enormi danni. La storia insegna. Agli estremi, l’artista arriva ad assoldare un intero team che produce il tutto a nome suo. Lui alla fine firma i lavori. Questa è la realtà. Adesso abbiamo capito perché i musei, naturalmente oltre ai capolavori, sono strapieni di opere che fanno solamente ridere? Bene!
Sono geloso mi chiederai? No! le stelle cadenti non lasciano traccia, quindi non è materiale di cui possa provare gelosia. Io sono molto metodico nel mio lavoro, se un giorno dovrò veramente diventare famoso, internazionale, voce da enciclopedia, questo lo deciderà il tempo e soprattutto il mio lungo operato. Ci metto davvero tanta professionalità.
Ti ritieni un seguace di Jackson Pollock? Cos’è che vi unisce e cosa vi divide?
Sì, e non solo. In una pagina del mio sito ho scritto che vorrei essere l’erede di Pollock. Sai perché? Il grande Jackson è stato un pilastro, un’icona, un maestro. Sarò sincero: personalmente la produzione artistica di Pollock non mi entusiasma molto. Tantissimi quadri sono esperimenti, non vi è traccia del suo spirito. Ma proprio alla fine, prima dell’incidente stradale, ci fu una produzione fantastica, era arrivato all’eldorado realizzando opere incredibili, profonde, coinvolgenti, mozzafiato. Poi tutto finì, all’improvviso. Mi piacerebbe entrare nella vena aurea che aveva scoperto e riportarlo “in vita”, riportare in vita il suo sogno, dedicandogli una collezione. Sì, in futuro, quando sarò pronto, realizzerò una collezione con quadri enormi e la intitolerò: omaggio a Jackson Pollock; spero che mi guidi il suo spirito e sarà, sicuramente, un’esperienza fantastica.
Hai dedicato diverse opere alla città di New York e anche alcune che rievocano la catastrofe delle Torri Gemelle. Che cos’ha New York che rapisce la tua attenzione rispetto ad altre metropoli? E preferisci pensare all’arte come ricordo o arte come denuncia?
New York è New York, per tutti. È il sogno proibito, la città che non dorme mai, la statua della libertà, la grande mela. New York non si commenta, parla da sola. Arrivare a dipingere New York è stato un puro caso. Una sera venne a farmi visita un signore speciale. Un signore indiano nato guarda caso a Goa. Non penso di fare un torto a nessuno, non penso di violare la privacy. Lui è il grande chirurgo di fama mondiale Surendra Narne. Quando entrò in galleria fu una scintilla; i suoi occhi, lo sguardo tipico dei nativi dell’India così penetrante ed ipnotizzante, la sua conciliante pacatezza. Mi colpì da subito. Quando andò via cercai su internet e lessi la sua storia, fatta di donazioni, interventi complicatissimi agli occhi che sapeva realizzare al mondo solo lui ed un altro chirurgo: interventi che lui effettuava gratuitamente ai bambini indiani dove la medicina locale non arrivava. Lessi che il signor Surendra inviava dall’Italia all’India a sue spese, tir carichi di medicinali e viveri. Persone ti tale calibro nella vita se ne incontrano quante le dita di una mano. Ma torniamo a noi: il signore vide i miei quadri e se ne innamorò fin da subito. Mi disse: Goa io voglio che tu mi dipinga la cupola del Brunelleschi di Firenze. Ed io: ma sig. Surendra, lo vede cosa dipingo? Non faccio figurativo. E lui: ce la farai; queste sono le misure. In un turbinio di sensazioni e paure, in quanto era una commissione che non avevo mai affrontato, una notte preparai tutto ed iniziai il dipinto. E alla fine uscì: Florence, collezione quadri anno 2013, e venne talmente bene che ancora oggi ricevo tante mail di complimenti. E venne talmente bene che stimolò in me la voglia di sperimentare portandomi a realizzare i primi quadri su New York. Perché New York? Chi lo sa; forse per i suoi grattacieli, simili agli obelischi egiziani che tanto mi affascinano. Poi arrivò il punto di non ritorno: 11 settembre 2001. Vissi in diretta televisiva la catena di attentati al World Trade Center e al Pentagono. Nonostante avessi letto sempre delle guerre, del Vietnam, dell’Olocausto, quel giorno rimasi letteralmente scioccato per quello che l’uomo può fare contro l’uomo. Una furia assassina gratuita, contro degli esseri indifesi che si recavano a lavoro, una strage senza senso, un’apocalisse non per mano divina ma per mano umana. Tutto questo si riflesse sui miei quadri e creai un’intera collezione in memoria di quella data, collezione che fece il tutto esaurito. Evidentemente tantissime brave persone rimasero colpite come me da quell’immane tragedia. Mi hai chiesto se preferisco pensare all’arte come ricordo o arte come denuncia? Da quello che percepisco, l’arte è sempre stata concepita come denuncia a livello universale.
I portali del cosmo
Nel 2013 la tua opera “Via Lattea” ha conquistato il premio COMEL del pubblico, un riconoscimento che ti ha ulteriormente dato visibilità e successo. Cosa ha rappresentato confrontarti con l’alluminio e come è cambiato il tuo impegno artistico da allora?
L’esperienza del premio COMEL è stata per me emozionante, entusiasmante e proficua dal punto di vista creativo. Gli organizzatori Maria Gabriella ed Adriano, i titolari della ditta CO.ME.L., furono incredibilmente eccezionali ed ospitali. Non esagero nel dire che sono altre due persone che posso mettere nelle dita della mano, insieme al sig. Surendra. Il concorso mi portò a realizzare un quadro, un’accumulazione su tela che, scusa la franchezza, era di una bellezza coinvolgente ed emozionante. Una galassia realizzata in polvere di alluminio su uno sfondo nero opaco. Che bella, mi spiace averla venduta, era davvero un’opera “grande”. Il tema del premio mi affascinò da subito e progettare un quadro usando l’alluminio mi rapii in quanto è un metallo che ho sempre ritenuto nobile. Nonostante il suo valore sia alla portata di tutti, esso risulta avere peculiarità eccezionali ed estremamente versatili. Vedi, pur avendo tutte queste qualità il suo prezzo in proporzione risulta “non degno”, in quanto è un metallo molto diffuso sul territorio. Mi ricollego alle quotazioni fantasma di cui ho parlato prima. È la stessa cosa: non vale quello che vale, ma vale ciò che il mercato mondiale detta.
Il premio COMEL è stato un trampolino che mi ha arricchito di un’esperienza senza precedenti, accendendo in me brillanti ispirazioni e nuove idee.
Talvolta nei tuoi quadri c’è una linea di demarcazione riconoscibile, una linea (non necessariamente rettilinea) che divide ciò che è in superficie da ciò che potrebbe vivere nelle viscere della terra, o sotto una città, o nella metà complementare di un paesaggio trasfigurato dall’action painting. Cosa ti intriga di più, il visibile o l’invisibile. O cerchi di rappresentare entrambi?
Ti rispondo proprio d’impeto: l’invisibile. Tutto quello che non vediamo ci desta curiosità, abbiamo un senso spiccato sin dalla nascita per l’ignoto, una sorta di paura/rispetto. Il visibile lo associo all’arte figurativa. Tutto ciò che è astratto è e deve essere un codice non riconducibile direttamente al visibile. Personalmente nei miei quadri ci metto tutto l’ignoto possibile. La mia è un’indagine, nelle mie opere c’è tanto mistero, la mia sete di ricerca della verità trasuda dalle tele. È ormai da troppo tempo infatti che inseguo la verità: chi siamo, da dove veniamo, qual è il nostro scopo sul pianeta terra, perché l’universo è infinito, e cosa significa realmente infinito? Tutte domande alle quali forse non troverò mai una risposta soddisfacente ma che sono fortunatamente da anni il fulcro di tutta la mia produzione artistica. Tutto questo mistero crea una sorta di curiosità per chi osserva i miei quadri; è come se il visibile, i miei schizzi, siano solo la punta dell’iceberg, il 90% è nascosto, il concettuale è mimetizzato nel groviglio di lanci generati sulla tela, e tocca all’osservatore decriptarlo. Adoro tutto questo mistero che impregna le mie opere; le rende uniche e speciali. Che poi piacciano o meno è un altro discorso.
Crei solo opere uniche. Non ti piacciono gli esemplari in serie. In questo modo doni all’osservatore, e anche a chi acquisterà la tua opera, una creatura che non ha eguali. È come se le tue opere avessero un DNA irripetibile e vuoi che questo messaggio sia noto. C’è un rapporto privilegiato e unico con l’opera d’arte, non puoi, e non vuoi, ripeterlo.
Mamma mia, hai toccato il tasto rosso. Dna! Cosa c’è al mondo di più misterioso, complicato, magico, criptico del nostro Dna. Aiuto, ho ancora i brividi. Il nostro codice genetico, progettato meticolosamente dalla notte dei tempi. Anche qui tanto mistero, e anche qui tante ispirazioni che mi hanno portato alla realizzazione di tante opere, che come dici tu hanno volutamente un’unicità degna del più enigmatico Dna. Le più emblematiche riportano un titolo a cui sono particolarmente affezionato: “il cromosoma mancante”. Sai cos’è il cromosoma mancante? È quell’elemento che nella nostra fase di progettazione, si sono “scordati” di inserire. Quell’elemento chiave che risolverebbe tutti i miei dubbi e le mie domande, che ci farebbe comprendere il significato di infinito, di “principio” e di ultraterreno. Ma in fondo, alla fine, forse è meglio così. Forse è proprio il mistero che ci spinge sempre avanti, che ci aiuta a non mollare mai! Tutti noi viviamo come fossimo i protagonisti di un’opera astratta. Scivoliamo rotolando lungo un percorso a noi ignoto, non comprendiamo il concettuale della vita. L’arte della vita è una sostanza impalpabile, e solo pochi eletti riescono ad assaporare la sua grandiosa essenza. Per tutto questo, vorrei concludere con delle semplici parole dette da una semplice creatura di Dio, che vorrei dedicare a te, e a tutti i lettori:
la vita è un mistero: scoprilo
la vita è una sfida: affrontala
la vita è un sogno: fanne una realtà