MENZIONE SPECIALE DELLA GIURIA 2013

Intervista a Venanzio Manciocchi

di Rosa Manauzzi

Venanzio Manciocchi nasce a Sermoneta (LT) nel 1947. Dopo la prima mostra personale nel ’68, a cui seguirono mostre collettive negli anni ’70, dapprima presso gallerie locali, indirizza i termini della sua ricerca artistica verso un’essenzialità figurativa. Il paesaggio pontino è il suo soggetto privilegiato.
Durante alcuni anni di silenzio artistico, porta comunque avanti sperimentazione e ricerca, unite a viaggi esplorativi nelle più importanti gallerie d’arte europee. Esperienza che arricchisce e stimola una maggiore libertà espressiva. Alla fine degli anni ’80, riprende a far parte, su invito, di importanti collettive. La fotografia paesaggistica si sposta sempre più verso un segno pittorico del tutto originale che raggiunge la forma finale nell’espressione materica. L’invisibile si sostituisce al visibile.
La sensibilità ed esperienza di Manciocchi, si concretizzano nella delicata combinazione di colore e texture, pittura e sperimentazione su altre tecniche (incisione e collage in particolare), abrasioni sui metalli e astrattismi finalizzati all’ordine e al rigore del segno. Nel 2013 viene selezionato per il Premio COMEL Vanna Migliorin, alla seconda edizione. Ha esposto in importanti gallerie d’arte italiane. Molti i critici che si sono occupati dei suoi lavori.

Hai dichiarato che l’arte rappresenta per te una vera e propria missione. Che tipo di servizio pensi l’arte possa prestare oggi e in che modo pensi di soddisfare questo ruolo di ‘missionario’ artistico?

L’arte, in particolare l’arte cristiana, si può considerare come una forma di preghiera resa visibile, arte che parla, che si apre come una finestra cercando di capire l’essenza, non limitata solo alle tecniche e agli stili pittorici, indubbiamente interessanti.
La missione è trasmettere la fede attraverso la pittura, fare di questa un mezzo per esprimere la propria tensione verso l’eterno, un linguaggio per sondare attraverso la fede il mistero dell’assoluto, ben sapendo che molti sono gli stimoli, interiori ed esteriori che possono ispirarci. Cerco sempre una ispirazione autentica che racchiuda in sé qualche emozione che si può raggiungere con una illuminazione interiore.

Provieni da una famiglia molto legata alla fede cristiana. Non a caso hai dedicato alcuni dei tuoi quadri al simbolo della croce. La spiritualità è di fatto molto personale e affidarsi ai simboli religiosi noti, anche nell’arte, è sempre rischioso. Tu comunque hai deciso di condividerla, rendendo pubblica la tua vocazione spirituale attraverso l’arte. Cosa ti ha spinto a questa rappresentazione?

Posso dire che all’interno di un Cristianesimo non solo devozionale, la croce non è strumento dell’esecuzione ma gloria e capacità simbolica di Cristo. È il Crocefisso che ha reso la croce, da strumento di esecuzione a simbolo glorioso. Non è Cristo che ha ricevuto gloria dalla croce, ma è piuttosto Cristo che ha dato gloria alla croce, essendo crocefisso. Ecco che nei miei Crocefissi la croce è praticamente assente, perché sono interessato non solo all’incarnazione quanto alla kènosis (svuotamento) in cui Gesù non si è semplicemente fatto uomo, ma rappresenta tutta la debolezza e fragilità dell’uomo. È in questo insistere a voler descrivere il corpo che si può scoprire la resurrezione, il tentativo di rappresentare il risorto in colui che è crocefisso. Certamente non deve mancare né la fede né la speranza.

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La natura è il tuo simbolo di riferimento da sempre. Le dune, i filari di pini, le spiagge, l’agro pontino, sono sempre stati i tuoi soggetti preferiti. Tra questi il Monte Circeo è senz’altro un altro dei simboli maggiormente raffigurati. Al mito di Circe sembra che tu abbia voluto anteporre il monte, quale elemento naturale e più antico del mito stesso. In che modo ne hai subito il fascino?

Io vivo nei pressi di un borgo pontino (B.go Grappa – LT) ai margini dei laghi costieri. Il monte Circeo, da qui visibile, in un certo senso è diventato il mio centro dell’universo inteso come luogo della pittura. Quindi il fascino che provo nel dipingere dune, spiagge e scorci del Monte Circeo derivano da una dimensione contemplativa nel percepire le sensazioni che mi circondano.

 

Il critico d’arte Giorgio Agnisola, che segue da anni la tua carriera artistica, ha detto di te che il tuo obiettivo è “dare forma alla luce, dare spirito alla materia”. In effetti luce, forma, materia sembrano unirsi in modo indissolubile tanto che la materia nel tempo si è sempre più elevata da strato pittorico a tridimensionalità. La luce pervade fortemente le tue opere. Sembra quasi che tu voglia dare vita alla materia altrimenti inerte proprio attraverso una vena spirituale fatta di luce.

La relazione materia-luce sono i miei punti iniziali e finali del mio modo di operare, dove la materia si fa immagine per restituire le emozioni e la luce esalta la materia. Tutto il resto si sfuoca, appare e scompare, quindi in riferimento “dare forma alla luce, dare spirito alla materia” in effetti è quello che voglio quando dipingo.

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Nel 2013 sei stato selezionato per il Premio COMEL 2013, con l’opera “Resti di racconti”. Un puzzle di lamine metalliche lavorate con un processo lungo e meditato. Una metafora della vita, puntellata di racconti, e la sapienza tecnica dell’artista maturo. Cosa ha significato per te quest’opera e come è nata?

Era diverso tempo che cercavo attraverso materiali diversi di rappresentare le mie emozioni. Il Premio Comel è stata l’occasione per farlo con l’alluminio.
Premetto che vengo da una esperienza lavorativa come tecnico specializzato nel campo industriale, avendo lavorato in un stabilimento chimico-farmaceutico. Nel mio lavoro l’alluminio veniva molto utilizzato, in particolare nel rivestimento di serbatoi e tubazioni per l’isolamento termico degli stessi. Nel tempo veniva corroso e aggredito da sostanze chimiche atmosferiche. Nell’osservarli intravedevo, attraverso questi processi chimici, immagini riconducibili al mio modo di fare pittura, quindi attraverso le lamine di alluminio ho cercato di riproporre le sensazioni e le emozioni, nella loro visione più astratta.

Quali sono gli artisti o le correnti artistiche che hanno maggiormente segnato la tua arte?

Fin dall’inizio della mia attività pittorica rimanevo affascinato dal Novecento Italiano, in particolare Morandi, Carrà, Sironi, in seguito i pittori del Naturalismo Astratto, ad esempio Morlotti, che con la sua materia greve mi trasmetteva forti emozioni.
In seguito, dopo una pausa dei primi anni Ottanta, ritrovavo il mio impulso creativo scoprendo artisti in un certo senso vicini al mio modo di vedere la natura, in particolare il pittore naturalizzato francese Nicolas De Stael e William Cogdon, pittore americano che viveva in Italia. Di questo mi colpiva la forte tensione spirituale.

Rocce

Mentre si sta diffondendo la moda, da parte degli artisti, di progettare soltanto il proprio lavoro, facendolo poi realizzare presso officine specializzate, tu ami costruire per intero il tuo quadro. Dal supporto alla scelta della tela, dai materiali ai colori, passando per abrasioni e altri delicati processi chimici, realizzi ogni fase dell’opera come un paziente artigiano. La tua creazione è di fatto una tua creatura, dall’ideazione alla messa in mostra.

Io mi sento pittore-pittore e non sono in sintonia con l’esasperazione concettuale dei linguaggi artistici contemporanei, sono profondamente convinto che l’arte debba regalare momenti di felicità e un rifugio di vita parallela a quella quotidiana. Quindi non condivido quando un artista ha un’idea e qualcuno la realizza per lui. Continuo a credere nell’arte che si fa con le proprie mani. Nel piacere di lavorare nel mio studio, alla bellezza di usare i pennelli, i colori e altri materiali.

Il tuo paesaggio, un tempo riconoscibile, è andato via via trasformandosi in accenno del paesaggio, suggestione paesaggistica. Il realismo, già personale, è diventato naturalismo informale in cui il lirismo domina sulla figurazione. Come si è svolto questo processo verso l’astrazione?

Non ritengo di essere un pittore figurativo perché mi sforzo di non dipingere ciò che si vede ma quello che credo di vedere. Non sempre il dipinto si realizza nel momento in cui si rimane colpiti come una allucinazione. Molte volte conservo il ricordo che si protrae nel tempo, come assopito, finché non si è risveglia in modo occasionale, senza che ne sia pienamente cosciente. A volte basta un segno, un grumo di materia che sollecitano la memoria per riattivare il ricordo e lo rimetto in gioco. Quindi la dimensione del ricordo non si traduce solo nella sovrapposizione fisica della materia, ma mi investe nella creazione di immagini con forte risonanza interiore.
Come detto cerco nei miei paesaggi qualcosa di infinito (dimensione spirituale).

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