Elena Diaco Mayer
Catanzaro, ITALIA
www.elenadiaco.it
www.elenadiaco.it
Elena Diaco Mayer
Catanzaro, ITALIA
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CENNI BIOGRAFICI
Elena Diaco Mayer è nata a Padova nel 1968 ed è cresciuta a Firenze. Si è laureata in Scenografia presso l’Accademia di Belle Arti di Brera e si è specializzata con lode in Arti Visive e Discipline dello Spettacolo, con indirizzo in Pittura, presso l’Accademia di Belle Arti di Catanzaro.
Ha studiato lingua araba, iconografia ortodossa. Studia calligrafia giapponese. Ha approfondito il metodo didattico munariano “Giocare con l’Arte” e continua da oltre 25 anni a svolgere attività didattica coordinando atelier di pittura per bambini, laboratori creativi per adulti e soggetti svantaggiati. Nel 2009 ha partecipato alla Seconda Biennale d’Arte dei Giovani a Bologna, curata da Renato Barilli e Roberto Daolio. Nel 2011 è invitata ad esporre alla 54° Biennale di Venezia, “L’Arte non è cosa nostra”, Padiglione Italia – Accademie, Venezia, a cura di Vittorio Sgarbi.
Il suo lavoro è connotato dall’utilizzo di elementi naturali ed essenziali, e da un’iconografia che si basa sia sulla tradizione artistica occidentale sia sulle culture ortodossa ed orientale. Nel 2016 è tra i partecipanti alla Residenza d’artista BoCs Art di Cosenza a cura di Alberto Dambruoso in collaborazione con il Comune di Cosenza e i Martedì Critici. La sua opera, pittorica e scultorea si serve di monocromie e ampie campiture d’oro, scritture astratte e modulazioni del segno.
OPERA IN CONCORSO
RITROVARSI IN UN RIFLESSO, 2016
SCULTURA - Foglio di alluminio graffito su laminato
cm 150 X 150 X 1.8
Un disegno mentale - griglia ricognitiva ed espediente prospettico - si sovrappone, nell'opera di Elena Diaco Mayer (Ritrovarsi in un riflesso), ad un'onda di segni luminosi vibranti su di un fondo oscuro e minaccioso. È il contrasto, appunto, tra fluidità dei segni e il rigore della griglia che determina nel riflesso psicologico quel senso di prospettica barriera in primo piano attraverso cui lo sguardo penetra, esplora. Oppure la griglia è un espediente dell'anima per dare, in una sorta di rispecchiamento di sé, ordine e rigore ad un inquieto e sensibile mondo interiore.
Intervista di Rosa Manauzzi
Ho voluto rappresentare quel momento magico in cui la luce filtra attraverso l’acqua, ma pervade di sé e della sua bellezza anche noi stessi: allora siamo nel fremito della coscienza, nella realtà.
Hai trascorso la giovinezza in città che trasudano arte, e i tuoi spostamenti hanno sempre mantenuto viva l’aspirazione alla realizzazione nell’arte, attraverso studi sempre più approfonditi, prima a Milano dove hai avuto modo di laurearti in Scenografia, poi a Catanzaro, dove ti sei specializzata in pittura. Quanto sono stati importanti questi cambiamenti geografici nel tuo percorso di artista? E quali artisti hai incontrato sulla tua strada?
Aver trascorso l’infanzia a Firenze è stato determinante: Ho avuto la possibilità di vedere le più belle architetture rinascimentali, la mia scuola si affacciava su Piazza S. Maria Novella: le sue forme, le proporzioni, l’equilibrio classico della sua facciata sono divenuti per me simbolo di perfezione, mentre le icone dai fondi dorati di cui la città è ricca sono rimaste impresse nella mia memoria come archetipi di luce e del sacro. A Catanzaro ho trovato invece una luce limpida, netta, a volte tanto viva e onnipervasiva da sembrare senza origine, quella del sole calabrese. È a quella luce che attingo. Da quella luce è nato ogni mio lavoro.
Quali artisti ho incontrato sulla mia strada? Più che di incontri artistici, parlerei di incontri spirituali. La filosofia orientale, e in particolare lo zen ha segnato profondamente fin dai primi studi accademici a Brera tutta la mia ricerca. Ogni mio lavoro è strettamente connesso col pensiero e con la percezione del vuoto inteso come contenimento del tutto e del senso di interconnessione di tutte le cose.
Per una decina di anni ti sei dedicata all’arte della ceramica, del vetro e della carta, unendo la tua passione artistica all’impegno sociale, attraverso laboratori espressivi per soggetti svantaggiati. Hai inoltre curato atelier laboratoriali usando il metodo Munari. Vuoi raccontarci queste due esperienze?
Negli anni accademici trascorsi a Milano desideravo fortemente rendermi utile verso chi era più sfortunato di me. Allora ero volontaria presso una comunità di accoglienza per figli di extracomunitari proprio accanto a Brera. Cercavo di conciliare la mia sensibilità artistica con il desiderio di impegno verso l’altro. È a Catanzaro che mi è stato possibile realizzare una sintesi tra queste due aspirazioni. Inizialmente ho creato un atelier di pittura in cui bambini dai due anni in su potessero esprimersi liberamente. A quell’età è molto più facile rappresentare stati d’animo e sentimenti attraverso il colore, il segno e la gestualità, piuttosto che attraverso la parola. I bambini non si domandano il perché di un segno o di un gesto: se hanno del colore e un pennello in mano, esprimere se stessi e dipingere è un tutt’uno.
Successivamente ho lavorato con portatori di handicap mentale e soggetti svantaggiati insegnando diverse tecniche, ma soprattutto cercando sempre, attraverso il fare artistico, di fornire gli strumenti perché potessero esprimere ciò che il linguaggio verbale non sempre è idoneo a fare, in particolare in persone con difficoltà cognitive. Il linguaggio dell’arte è un linguaggio universale, se è proposto nei tempi e secondo modalità personalizzate consente di superare il senso di inadeguatezza, creando benessere e soddisfazione.
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Nel 2007 ottieni un importante riconoscimento: una tua opera entra a far parte del Museo Civico di Taverna. Cosa ha rappresentato il progetto M.A.C.A.T. nella tua carriera?
Fare artistico – vita – spiritualità non sono mai stati disgiunti. La realizzazione di un lavoro per me ha sempre a che fare con concetti come dissoluzione, percezione dell’inconsistenza del sé, e appartenenza al tutto. Il pensiero per la carriera ha trovato raramente spazio in tutto ciò.
L’anno successivo arriva la partecipazione alla Seconda Biennale D’Arte dei Giovani a Bologna. L’orizzonte si distende sempre di più. Questo raggio di azione sempre più ampio fa mutare il tuo modo di operare?
Il mio modo di operare è stato sempre influenzato da altro. In primo luogo dal silenzio, dalla contemplazione, e dalla meditazione.
54° Biennale di Venezia, ci sei anche tu. Con quale opera e quali emozioni?
Ho partecipato alla Biennale di Venezia con un lavoro di scrittura incisa su un fondo dorato (la trascrizione del libro di Christian Bobin, Elogio del nulla). La tavola, divisa in due, era incisa da una parte e vuota dall’altra. Il vuoto, in questo caso inteso come silenzio, è l’elemento sostanziale che riequilibra ogni cosa. Le parole, anche le più belle, non possono dire tutto: nel silenzio, solo nel silenzio, risiede la Verità. Essere alla Biennale di Venezia è stata un’importante conferma che ha dato senso ai giorni di solitudine e isolamento dovuti al tipo di lavoro che svolgo (quello artistico ma sempre connesso con la meditazione), ed al mio essere in una terra marginale come la Calabria.
Nelle tue opere gli spazi sono ampi, con una grande possibilità di rispecchiamento (fisico e interiore) da parte dello spettatore. È come se offrissi, in qualche modo, un posto nella tua creazione a chiunque voglia accomodarsi nel riconoscersi. Inoltre le monocromie e le ampie campiture d’oro elevano dallo stato materico più pesante a uno stato contemplativo più alto. C’è molta ricerca psicologica nelle tue pitto-visioni, molta inclusione direi.
Sì, è quello che cerco di ottenere attraverso gli ultimi lavori che sto realizzando. Mi ha sempre interessato la capacità di alcuni materiali di riflettere la luce, e ultimamente mi piace che attraverso di essi si possa riflettere lo stesso osservatore, come nel lavoro presentato al Premio COMEL, “Ritrovarsi in un riflesso”. Quest’ultimo lavoro è stato concepito come uno specchio meditativo, un mare di riflessi in cui riflettersi. È la rappresentazione di quei momenti di dissoluzione di sé generati dallo stato contemplativo. Durante la contemplazione l’osservatore si dissolve nell’oggetto contemplato, il suo senso di separazione scompare. In quell’istante – lo stato illuminato – non ci sono più né soggetto, né oggetto: l’io che guarda si perde nella cosa guardata fino a scoprire che contemplante e contemplato sono un tutt’uno, sono la stessa cosa. Nello specchio meditativo dell’installazione questa fusione si realizza: l’incisione di riflessi di luce e il riflesso di chi osserva si sovrappongono, osservatore e oggetto osservato, contemplante e contemplato diventano un’unica realtà onnicomprensiva: lo stato di fusione si concretizza visivamente.
Vuoto, Installazione
I simboli orientali, mediorientali e occidentali convivono nella comunanza monocromatica e preziosità aurea che trascende limiti e confini. Le scritture, araba e giapponese abbandonano il significato criptico per diventare pittura simbolica comprensibile universalmente. Il significato sembra perdere importanza a favore della forma, del pregio dello stile, dell’eleganza dello spazio e della linea sinuosa che si fa scrittura. Piuttosto che creare una sovrascrittura unificante preferisci mantenere l’unicità simbolica di ciascuna cultura. Eppure il messaggio finale sembra essere la comunanza dell’essere, qui e ora, nel silenzio contemplativo.
Attraverso lo studio dell’arabo, della calligrafia giapponese e del simbolico ho sempre ricercato l’universale. Alcuni segni, più di altri, sembrano ricondurre ad un superamento del relativo, e quindi delle divisioni, come il cerchio zen: tracciato con un unico gesto, e tanto più perfetto quanto più tracciato in assenza di un’idea di raggiungimento, oppure alcuni ideogrammi, in cui significante e significato sembrano coincidere nell’immediatezza dell’immagine che permane nel pittogramma tutt’oggi usato, oppure nella scrittura astratta, una scrittura svuotata di significato, in cui le parole perdono il contenuto pertinente–impermanente per diventare parola astratta. È una scrittura libera da ogni significato relativo. Il segno puro, che proprio in quanto privo di significato, si libera da ogni contenuto soggettivo o relativo per diventare Parola Simbolica Assoluta.
L’alluminio, un materiale che hai magistralmente lavorato per ottenere l’opera “Ritrovarsi in un riflesso”, grazie alla quale sei stata selezionata come finalista per il Premio COMEL V edizione. L’impressione è di trovarsi di fronte ad uno specchio d’acqua, con gli stessi giochi di luce che caratterizzano la superficie del mare calmo. Come sei arrivata ad ideare questo lavoro?
Ha sempre avuto un fascino particolare per me la luce riflessa sull’acqua, o che filtra attraverso di essa trasformandosi in una rete luminosa intricata e perennemente mutevole.
La bellezza, qualunque essa sia, attira nella spazialità e dissolve i legami all’ego. Ho voluto rappresentare quel momento magico in cui la luce filtra attraverso l’acqua, ma pervade di sé e della sua bellezza anche noi stessi: allora siamo nel fremito della coscienza, nella realtà. Il materiale ideale per poter realizzare ciò che avevo in mente era proprio l’alluminio in fogli impalpabili, stesi attraverso una particolare tecnica che li rende lucenti, capaci cioè di riflettere sia la luce che l’osservatore, ma nello stesso tempo li mantiene recettivi, per potervi incidere quei riflessi che mi hanno sempre incantata.
Desideravo poter trasformare quella superficie argentea in un mare di riflessi di luce, e nello stesso tempo poter restituire l’immagine dell’osservatore che li guarda, perché contemplante e contemplato sono un tutt’uno, sono la stessa cosa.
Quali sono i tuoi progetti più recenti e quali i materiali che privilegi?
Continuo a sperimentare. Mi interessa la proprietà specchiante e di riflessione della luce dell’alluminio, dell’argento e degli altri metalli. Vorrei creare una serie lastre in cui l’osservatore possa specchiarsi. Una sorta di specchi dell’io, un io inteso però in senso ampio, non-occidentale: l’annullamento di sé per ritrovarsi nel grande-io, il “vuoto” che tutto contiene.
La luce dell’oro, antiche ammoniti, il cerchio, ante che si aprono sul nulla (che genera il tutto), trasparenze del vetro, ciotole che possono essere campane tibetane, frasi di Maestri senza tempo, parole ripetute che creano mantra originali. Come leghi il sacro con il ritmo contemporaneo? Si può trovare un equilibro o è necessario rifugiarsi in una nicchia?
La mia visione del sacro risiede nella coincidenza di trascendente e immanente, nella non-separazione. Tutte le cose hanno quella stessa qualità fondamentale, la stessa provenienza, e la stessa destinazione. Ogni granello di terra, ogni filo d’erba, ogni alito di vento sono luoghi del sacro. Per me l’Assoluto è nell’immateriale, ma anche nella materia, perché l’Assoluto comprende la terra, o non é. Abbiamo solo bisogno dei mezzi per percepirlo, e questi sono a disposizione di tutti: il silenzio, le pause, il fermarsi per qualche attimo a guardare, o ad ascoltare, percepire ciò che si ha di fronte, o semplicemente sentire lo scorrere dentro e fuori del proprio respiro….