Silva Cavalli Felci
Bergamo, ITALIA
www.silvacavallifelci.co
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CENNI BIOGRAFICI
Nasce nel 1935 a Bellinzona (CH). Dopo gli studi superiori in Svizzera trascorre un biennio a Londra e frequenta il corso di disegno e stage design presso la St. Martin’s School of Art. Nel 1969 conclude la sua formazione presso l’Accademia di Belle Arti di Bergamo. Tiene mostre personali e collettive in Italia. Crea libri d’artista in collaborazione con poeti e scrittori. Dal 1997 conduce laboratori di attività espressive rivolti all’indagine e alla voce del disagio. Vive e lavora a Bergamo e a Manerba del Garda. Nel 2014 esce la monografia ‘La vita è insufficiente’, curata da Paola Tognon (Lubrina Ed., Bergamo). A marzo è stato pubblicato il libro ‘Il mito di Inanna. Amore e potere al femminile nel patriarcato’, di Sonia Giorgi (Aracne Editrice, Roma) con immagini d’arte di Silva Cavalli Felci e poesie di Pasqua Teora.
OPERA IN CONCORSO
DANZA ROSSA, 2014
SCULTURA - Lastra di alluminio rosso
cm 50 x 150 x 8
La sagoma rilevata di Silva Cavalli Felci ('Danza rossa', 2014) è una forma emblematica. Pare un nodo, un simbolo, un fiore. S'apre in un suo vermiglio rilievo lucido e riflettente. L'alluminio è stato smaltato in modo da rappresentare inizialmente un semplice materiale d'uso. Ma del metallo la forma rilevata recupera la leggerezza, la duttilità, si sarebbe tentati di dire la sensibilità. Le pareti infatti del rilievo sono suscettibili di piccoli movimenti, di sonore e imprevedibili vibrazioni.
RICONOSCIMENTI
VINCITRICE PREMIO COMEL 2015
con la seguente motivazione:
“Misura, ritmo ed eleganza sono i segni caratteristici evidenti di un’opera con la quale l’artista, dal ricco e significativo curriculum, ha voluto rimettersi in gioco ed è tornata a sperimentare il suo linguaggio. La purezza dei tagli della materia e la morbidezza delle linee, ottenute con una fine modellazione dell’alluminio colorato di rosso, accennano i movimenti lievi come di una danza e sembrano disegnare simboli musicali e profili di uno spartito le cui armoniche si offrono allo sguardo per vibrare in leggerezza. L’opera rivela così una dimensione ulteriore, che la assomiglia ad una scultura sonora: le frange regolarmente sagomate dell’alluminio quasi possono essere toccate quali corde e lasciano netta la sensazione di una reazione con l’ambiente, di una atmosfericità estatica e come sacrale.“
(dal verbale della giuria)
Intervista di Rosa Manauzzi
Credo che il mio lavoro sia il risultato del mio temperamento, del mio bisogno di approfondire la conoscenza di me stessa, della realtà e, forse, della possibilità utopica di trasformarla.
Cominciamo a conoscerti meglio attraverso il tuo percorso di formazione. Negli anni ’50 hai scelto Londra come luogo d’arte (una scelta inconsueta per una donna: abbandonare la propria terra e andare a studiare e vivere lontano). Perché l’hai preferita ad altre città?
Londra è stata per me una scelta quasi obbligata. La città di provincia nella quale avevo vissuto la mia giovinezza e le condizioni famigliari non mi avevano concesso, dopo gli studi superiori, di seguire le mie inclinazioni. Londra ha avuto un’importanza fondamentale nella mia assai anomala formazione perché mi ha concesso di assecondare il mio desiderio di conoscenza attraverso un’assidua frequentazione di musei, concerti e spettacoli di alto livello e di frequentare alla St. Martin’s School of arts il corso di disegno e stage design. Se mi fosse stato possibile, forse avrei scelto una via più diretta: Milano e l’Accademia di Brera.
L’Accademia Carrara di Belle Arti di Bergamo, dove hai concluso i tuoi studi, ti ha riportato ad un ambiente più tradizionalista. E’ qui che è iniziata la tua voglia di sperimentare?
La frequentazione dell’Accademia Carrara è servita innanzitutto a sentirmi legittimata e mi ha consentito una pratica artistica che è diventata parte integrante della mia vita. Devo questo al Maestro Trento Longaretti e alla sua stima per il mio lavoro. Poi, “la voglia di sperimentare”, come tu la chiami, ha proseguito ineluttabilmente il suo percorso senza soluzione di continuità.
Quali sono i materiali e le tecniche che privilegi e come sono cambiati nel corso del tempo? E quali sono le opere che ami di più che meglio rappresentano le varie fasi della tua carriera finora?
La scelta dei materiali e delle tecniche è sempre funzionale all’espressione del pensiero e quindi è diversa nelle varie fasi del mio lavoro. Non ho opere che amo più di altre: se nascono e sopravvivono le amo. Un po’ come i figli. Potrei sceglierne alcune, emblematiche per ogni fase, come ho cercato di fare nella monografia “La vita è insufficiente”.
Orfeo
Le tue opere risultano, in qualche modo, scavate, intagliate, quasi ferite, eppure infine consolidate e rafforzate. Sembra quasi che tu ne tiri fuori l’anima in un rito di iniziazione, dopo il quale questa può rientrare nella materia e sostenerla con forza. La materia così prende vita agli occhi dello spettatore.
Credo che il mio lavoro sia il risultato del mio temperamento, del mio bisogno di approfondire la conoscenza di me stessa, della realtà e, forse, della possibilità utopica di trasformarla. Gli acquarelli e i pastelli della fine degli anni’70 – inizio anni ’80 sono energia interiore, vibrazioni, scatti pulsionali, nodi di pensiero-sentimento-emozione, realizzati usando gli strumenti sempre in modo rapido e ritmico. In una fase successiva, ho usato legni abbandonati, cortecce, cenere, sabbia, catrame come linfa sotterranea e fuoco come agente di trasmutazione: materie la cui vita era sospesa, ma per me cariche di potenziale energia. Nel prosieguo, il mio lavoro si fa più scarno ed essenziale. Le mie opere più recenti sono sculture realizzate in materiali compositi, in acciaio inox, specchi e alluminio, contemporanee a tagli su carta di piccole dimensioni. La ferita, lo strappo (l’unità perduta o forse la speranza di un possibile ritrovarsi) il taglio nei volumi come “esplosi” e poi ricomposti in un nuovo equilibrio sono temi che ricorrono nel mio lavoro.
Hai recentemente vinto la IV edizione del Premio internazionale COMEL “Vanna Migliorin” – Arte Contemporanea. “Danza rossa”, l’opera scelta dalla giuria è stata anche tra le più votate del pubblico. Puoi raccontarci la nascita di quest’opera?
L’opera “Danza rossa”, appositamente creata per il Premio COMEL, è l’ultima di un ciclo di lavoro iniziato nel 2013. Un lavoro di sintesi realizzato dapprima con disegni tridimensionali su carta bianca, nera e talvolta rossa, nei quali la matita è stata sostituita con una lama i cui tagli non ammettono pentimenti. Successivamente, la carta è stata sostituita con lastre di alluminio, che mi hanno concesso l’uso delle grandi dimensioni. In questo caso, i tagli sono incisi con il laser mentre il movimento in lievitazione delle varie parti è da me eseguito manualmente grazie alla flessibilità e resistenza dell’alluminio stesso. Per l’opera destinata al Premio Comel, ho scelto il colore rosso nella sua simbologia positiva, cercando, nei segni, quell’equilibrio e quell’armonia forse ancora possibili o quantomeno auspicabili in opposizione al tempo frenetico in cui viviamo.
Nel libro “La vita è insufficiente” (Lubrina Editore, Alessandria, 2014) è raccolta la tua esperienza artistica che è spesso condivisione con scrittori, poeti, ricercatori. Persone che si occupano di altri ambiti di studio. Tra gli altri: i poeti Rina Sara Virgillito, Sergio Romanelli e Adriano Piccardi. Non è semplice trovare la giusta empatia creativa. Come nascono le tue collaborazioni?
Il mio interesse per altre forme d’arte e per la conoscenza in senso più ampio hanno favorito l’amicizia con persone la cui creatività e profondità di pensiero hanno nutrito e accompagnato il mio percorso creativo. L’idea di realizzare un’opera congiunta sboccia quasi sempre in modo spontaneo. Per quanto riguarda i poeti: a volte dall’opera alla poesia, a volte dalla poesia all’opera. Il balletto ‘La rosa del deserto’, di cui ho ideato il soggetto, la scenografia e i costumi, è stato invece musicato dal Maestro Massimiliano Messieri dopo ripetuti incontri e analisi approfondita.
Tra le tue creature anche un’associazione culturale: “Poliedro, pratica e immagini della psiche”, con la psicoanalista junghiana Sonia Giorgi. Qual è stato il vostro obiettivo? Come è stata applicata la Sand Therapy nei laboratori di attività espressive che hai condotto?
Sì, creatura molto amata, nata dopo lunga gestazione, ma che, a causa di difficoltà e fatiche organizzative, ha avuto una durata di pochi anni. Poliedro è stata la realizzazione di un desiderio mio e di Sonia Giorgi, psicoterapeuta junghiana, amica di lunga data, desiderio trasformatosi progressivamente in un programma denso e articolato. L’Associazione culturale Poliedro intendeva offrire uno spazio aperto in cui le persone con comuni interessi nel campo della cultura, dell’arte e dell’indagine psicologica si potessero mettere in relazione; un luogo che accostasse a momenti di discussione e riflessione, momenti di produzione e sperimentazione del mondo simbolico attraverso l’attività espressiva e arte terapeutica, il ripercorrere mito e letteratura nella chiave del simbolo e della ricerca interiore. Il sand play venne usato nei vari laboratori come mezzo espressivo, complementare a varie altre modalità disponibili (creta, disegno, collage, teatrino ecc.). Nei numerosi incontri, furono affrontati temi quali la questione del maschile e del femminile, il rapporto dell’uomo con le forze soprannaturali, la sofferenza, l’arte come espressione di percorsi interiori; sei incontri furono dedicati a personaggi della tragedia classica, Antigone, Elettra, Giocasta e Edipo.
Movimento carta
A marzo è uscito il libro ‘Il mito di Inanna. Amore e potere al femminile nel patriarcato’, di Sonia Giorgi, (Aracne Editrice, Roma) con tue immagini d’arte e poesie di Pasqua Teora. Avevi già lavorato su questo mito in Il viaggio di Inanna, Regina dei Mondi, nei tuoi laboratori espressivi. Il mito, come trasmissione di storie esemplari, sembra affascinarti in modo particolare e si intreccia alla tua lunga ricerca sul femminile. Che cosa ci insegnano Inanna, la Fenice e la donna dell’antichità?
Il mio interesse per Inanna risale agli anni ’80, quando un amico mi suggerì di leggere: ‘Il mito sumero della vita e dell’immortalità’ di Diane Wolkstein e Noah Kramer e ‘La grande dea – Il viaggio di Inanna regina dei mondi’ di Sylvia Brinton Perera. Intuii allora che questa dea poteva essere di grande aiuto anche a noi donne del secondo e terzo millennio. I problemi contro cui lottavamo erano simili: come figlie del patriarcato dovevamo recuperare energie che erano sepolte in noi, energie che non eravamo state capaci di tutelare. Inanna ci insegnava la via da percorrere per recuperarle, per comprendere il nostro disagio, per avvicinarci alla consapevolezza di sé, certo una via non priva di difficoltà, come racconta il suo viaggio agli Inferi. Sentii con forza il desiderio di condividere con altre il mio entusiasmo per questo mito e pensai di proporne l’ elaborazione con dieci incontri di gruppo nel mio laboratorio di attività espressive: la lettura dei versi e il dare forma al proprio sentire con i materiali e le tecniche disponibili. Fu un’esperienza emozionante.
Nel tuo ricco curriculum anche esperienze di sceneggiatrice, scenografa e costumista. Una presenza molto radicata nel teatro. Raccontaci…
Un’attività questa che si è limitata a un livello amatoriale, ma che mi ha dato molta gioia e mi ha permesso di inoltrarmi in altri territori che amavo. Con l’amico Enrico Asti, avvocato ma “attore mancato”, intellettuale, profondo conoscitore di musica e lettore insaziabile, ci dedicavamo alla scelta di un testo, poi alla riduzione dello stesso per due voci e alle prove di lettura scenica. A me il compito di ideare e realizzare scenografie e costumi con mezzi limitati e per uno spazio improvvisato. Naturalmente, non potemmo prescindere dall’inserire nel nostro vario repertorio il poema sumero ‘Il viaggio di Inanna’, che fu anche rappresentato nella sede del Museo archeologico di Bergamo. Che cosa ci insegnano Inanna e la Fenice? Sono ambedue miti di morte rinascita. Si tratta di intraprendere simbolicamente un viaggio nel profondo, verso la conoscenza di sé, un viaggio che comporta fatica e sofferenza, ma dal quale risaliamo alla luce e al desiderio con forza rinnovata.
Quale consiglio ti senti di dare ad un giovane che oggi inizia la carriera artistica?
A mio avviso, non si devono dare consigli. Se un giovane sente la “chiamata”, deve guardare dentro di sé senza aspettarsi risposte. La strada dell’artista comporta rinunce, dedizione, sacrifici e, imprescindibile, è la passione, che legittima la propria vocazione davanti al mondo e a se stessi, indipendentemente dal successo. “La giovinezza in pittura si conquista lentamente: sarà data in premio ai vecchi meritevoli” (Jean Bazaine). Mi permetto di sostituire oggi la parola “pittura” con la parola “arte”, intesa come espressione dello spirito.
Il tuo prossimo progetto?
Più che un progetto è un desiderio o una speranza: la realizzazione scenica del mio balletto “La rosa del deserto”.